Nella grande trasformazione tecnologica ed economica di questi anni, sul lavoro del futuro si addensa una nebbia che occorre diradare
Come già avvenuto in passato, il lavoro umano promette di cambiare la sua natura. Dalle antiche attività servili, alle produzioni sempre più mercificate dell’epoca moderna, fino all’odierna prospettiva di una interdipendenza con macchine sempre più intelligenti, la storia del lavoro è sempre stata segnata da momenti di svolta che hanno messo in discussione e ridefinito l’intero assetto sociale.
Non ci sorprende pertanto che, sotto la spinta di un’automazione che appare inarrestabile, un gran numero di posti di lavoro e interi mestieri saranno destinati alla scomparsa. Come siamo consapevoli che altri mestieri sopravviveranno, sia pure profondamente trasformati, ed altri ancora, talmente innovativi da essere oggi difficili da prefigurare, esordiranno sui mercati e anticiperanno una nuova concezione del lavoro, un lavoro che si nutre di reti e relazioni sociali e nel contempo vive di simbiosi sempre più strette con l’intelligenza artificiale.
Di fronte a transizioni così profonde, non possiamo non sentirci smarriti, come di fronte a una nebbia che si addensa sul nostro avvenire. A questa incertezza, spesso paralizzante, risponde il saggio di Luca De Biase “Il lavoro del futuro“ che, con dovizia di argomenti e dati, prova a diradare la nebbia e a tratteggiare gli scenari più plausibili del futuro mercato del lavoro.
Il libro rilancia un’inchiesta realizzata dall’Autore per Il Sole 24 Ore e propone ai lettori gli sviluppi di un ampio lavoro di documentazione, condotto sul campo per mesi e lungo l’intera penisola italiana, alla ricerca di dati, interviste, testimonianze e riflessioni, in grado di offrire un’istantanea dettagliata del dibattito sul lavoro del futuro.
Nel suo complesso, il saggio di De Biase si presenta come un’opera di scorrevole lettura, indicata a un pubblico ampio e in particolare a chi, pur non essendo addentro la materia, ne intuisce il rilievo che sta assumendo per la tenuta del sistema sociale e del rapporto tra le generazioni. Dietro la stesura del saggio s’intravede il grande lavoro esplorativo condotto dall’Autore, circostanza che costituisce, nel panorama editoriale italiano delle opere destinate al grande pubblico, un apprezzabile elemento distintivo del libro.
Le questioni che Luca De Biase affronta sono numerose e in gran parte articolate fra di loro. Verso quali studi conviene indirizzare i ragazzi perché possano essere competitivi? Come aggiornarsi durante la vita lavorativa per mantenere vive le proprie opportunità professionali? Come evolveranno i diritti e i doveri dei lavoratori? Come dare valore al merito e all’integrità? Quali politiche si devono chiedere ai governanti? E che cosa può fare la società civile, indipendentemente dalla qualità dei governanti? Quali trend tecnologici cambieranno il contesto in cui tutto questo si svilupperà? Ci saranno ancora i mestieri di oggi, quali professioni sopravviveranno? Saranno di più i posti di lavoro generati dalla tecnologia o quelli che scompariranno? I periodi di disoccupazione diventeranno fisiologici?
Sono domande complesse che sottintendono, nelle intenzioni dell’Autore, una concezione del lavoro legata all’identità sociale. Lavoro come prospettiva di vita, “percorso per realizzare le aspirazioni personali, famigliari, comunitarie”, “forma produttiva dell’espressione di sé”, “principale porta d’accesso all’indipendenza economica”.
Una prospettiva di vita che oggi ci appare sfuggente, perché molti mestieri e molte certezze del mondo del lavoro vengono messe in discussione. Tuttavia la scomparsa massiva di posti dei lavoro tradizionali, ci ammonisce l’Autore, non deve stupirci. Nel corso della storia, cambiamenti altrettanto profondi si sono già verificati. Se nel primo novecento, l’80% degli italiani lavorava nei campi, oggi il numero degli agricoltori è ridotto a poche unità percentuali. In meno di un secolo, gran parte del lavoro come lo intendevano i nostri bisnonni è scomparso.
All’epoca, però, la strada da percorrere era chiara. Nel passaggio dall’economia agricola a quella industriale, la direzione era evidente a tutti: il lavoro era in fabbrica e abbandonare la campagna per la città era la scelta più conveniente.
Oggi invece la via da percorrere non è altrettanto certa: se i nostri padri potevano immaginare cosa avrebbero fatto i loro figli, oggi è molto più difficile raffigurarsi il loro futuro.
Le esperienze del passato ci insegnano che a fronte di mestieri, resi obsoleti dall’innovazione, che si dissolvono, altri vengono creati e prendono il loro posto nel mercato del lavoro.
Secondo i dati forniti dall’Ocse, il 14% dei posti di lavoro tradizionali scomparirà, mentre il 30-40% sarà destinato a trasformarsi. Secondo il rapporto Tomorrow’s Jobs di Microsoft, il 65% degli scolari di oggi in età adulta svolgerà lavori che oggi ancora non esistono.
Le stime sul bilancio complessivo di queste trasformazioni sono tuttavia discordanti ed è difficile prevedere oggi se il numero di nuovi posti di lavoro generati dalla tecnologia supererà quello dei posti che l’innovazione farà scomparire. Quello che sappiamo è che i posti di lavoro aumenteranno soprattutto nei Paesi che sapranno meglio sviluppare le nuove tecnologie, perché senza innovazione non sarà possibile generare nuova occupazione.
La sfida più ardua da affrontare resta tuttavia la gestione della velocità del cambiamento. L’innovazione tecnologica, se da un lato è in grado di minare l’occupazione tradizionale assai velocemente, dall’altro necessita di tempi molto più lunghi per generare su larga scala nuove opportunità di lavoro. E’ il tempo necessario per avviare nuovi mercati, sviluppare know-how e nuove competenze, formare e riconvertire i lavoratori, trasferire le risorse da un settore all’altro.
Esiste una differenza di velocità tra l’innovazione tecnologia e l’innovazione degli assetti sociali che può essere ridotta solo investendo nella formazione e nello sviluppo di nuove competenze. Di fronte ad un’automazione crescente, sarà infatti sempre più necessario puntare sulle competenze più squisitamente umane, come la capacità di lavorare in team, di comunicare, di progettare. Il fattore chiave della trasformazione non è costituito dai lavori che scompariranno a causa delle macchine intelligenti, ma dalla capacità di acquisire nuove competenze in tempi sufficientemente brevi da affrontare il cambiamento.
Accanto a questo indirizzo di lungo termine orientato verso una formazione sempre più permanente, è necessario avviare nell’immediato opportune politiche attive del lavoro per favorire la transizione da un mestiere all’altro e accompagnare le persone dalle professioni in declino a quelle emergenti.
Al lavoratore verrà richiesto un salto culturale, per coniugare meglio le competenze tecniche con quelle relazionali, per imparare ogni giorno e da ogni esperienza. Serviranno specialisti verticali ma dotati di apertura mentale, capaci di passare da un modo di pensare “aut aut” a uno “et et”. Anche questo cambio di mentalità dovrà cominciare dalla scuola, non solo favorendo una maggiore convergenza tra saperi umanistici e scientifici, ma anche rinnovando profondamente ambienti e metodologie di apprendimento.
Nella parte conclusiva del libro, l’Autore suggerisce possibili strade per il futuro. A giudizio dell’Autore, occorrerà prestare attenzione soprattutto a tre categorie di professioni. La prima comprende il lavoro correlato all’economia della conoscenza: dai ricercatori ai narratori, a tutti coloro che creano la componente immateriale dei prodotti e dei servizi. La seconda riguarda le professioni basate sull’empatia e sull’economia della cura: dagli insegnanti ai badanti, a coloro che accudiscono le persone e sviluppano le loro capacità sociali. E infine la terza relativa ai mestieri organizzati attraverso le piattaforme di mediazione e la gig economy – i cosiddetti “lavoretti” – intesi soprattutto come soluzioni temporanee, in attesa di prospettive e occupazioni più sostanziose e costruttive.
Come è stato per le prime tre rivoluzioni industriali, l’esito finale del cambiamento dipenderà dalla nostra capacità di governarlo, trasformando le sfide in opportunità. Il lavoro di domani non sarà l’invasione degli automi. Il futuro vedrà la convivenza di umani e macchine. Di certo avremo più robot nei lavori del futuro, ma l’uomo resterà il valore aggiunto. Sarà indispensabile investire nelle macchine ma, a maggior ragione, sarà necessario investire nelle persone.
Ciò che ci viene richiesto è però un grande sforzo collettivo. Il cambiamento in atto è di una tale complessità che per molti è difficile comprenderne la portata. Manca una visione credibile e condivisa del futuro, e in assenza di essa ogni sfida appare più minacciosa da affrontare e le opportunità più difficili da cogliere. Fare ricorso o appello alla flessibilità non è sufficiente, il cambiamento va comunque compreso e progettato secondo una prospettiva che rifletta valori accettati dalla popolazione, accompagnando gli investimenti nelle macchine con un forte rinnovamento dei modelli educativi e formativi, ma anche con una narrazione condivisa sul futuro. Come sottolinea l’Autore, il futuro è il frutto di una narrazione sul futuro, una narrazione che guida le azioni del presente verso le loro conseguenze.
Si tratta di ripensare il lavoro secondo nuove dimensioni e prospettive, senza timori pregiudiziali verso l’innovazione tecnologica, sposando l’idea di una convivenza proficua tra l’uomo e le macchine, dove le persone mantengano saldamente la funzione di valore aggiunto, perché, come ricorda Luca De Biase: “Gli umani, non la tecnologia, sono il problema e la soluzione”.
___SCHEDA DEL LIBRO
Titolo: Il lavoro del futuro
Autori: Luca De Biase
Editore: Codice Edizioni
Anno edizione: 2018