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Dagli aeroplani ai nanomateriali: come chimica e ingegneria si uniscono per trovare soluzioni nuove

Milena Arciniegas è passata dall’occuparsi di materiali compositi all’Advanced Manufacturing Research Centre (AMRC) with Boeing alle ricerche nel campo dei nanomateriali. Obiettivo del progetto ERC Consolidator grant EVA, che coordina, è ottenere un nanomateriale costituito da strati organici e inorganici alternati, in grado di offrire una rigidità meccanica progressiva, utile per applicazioni nel campo dell’elettronica e della biomedicina. Una ricerca ai confini tra chimica e ingegneria, che la ricercatrice definisce “creativa e affascinante”

Studiare i metodi e i problemi relativi all’assemblaggio di due materiali diversi, in modo da poter sfruttare e ottimizzare le caratteristiche di entrambi, evitando che le interazioni provochino problemi: Milena Arciniegas, laureata in Ingegneria meccanica e con un PhD in Scienza dei materiali, ha iniziato a occuparsi di questi temi poco dopo la fine del suo dottorato, lavorando all’Advanced Manufacturing Research Centre with Boeing, nel laboratorio di Sheffield, nello Yorkshire, dove la grande azienda aeronautica, in collaborazione con l’Università di Sheffield, sperimentava l’uso di materiali compositi in fibra di carbonio nella costruzione dei velivoli.

Oggi Arciniegas, che da diversi anni ha sviluppato le sue competenze nel campo dei materiali spostandosi verso la scala nanometrica, segue un grande progetto all’IIT attivato grazie a un importante finanziamento ERC, che punta, ancora una volta, a creare materiali formati da strati di composizione diversa. Ma questa volta in dimensioni estremamente piccole: nanometriche, appunto. Tanto che si parla di materiali a due dimensioni, ovvero ipersottili. Lo scopo finale è realizzare nanomateriali dotati di caratteristiche particolari, nello specifico del progetto EVA con un livello di rigidità meccanica variabile lungo lo spessore. Sono richiesti sia nell’elettronica, per esempio per realizzare gli schermi flessibili, sia in sanità, dove sono tra i materiali utilizzati per applicazioni ossee. 

 

Accoppiare materiali diversi per sfruttarne le caratteristiche

Con Milena Arciniegas ricordiamo da dove è partito il suo interesse per questi studi: «Avevo sviluppato durante il mio dottorato a Barcellona una competenza sui materiali relativa agli aspetti metallurgici, lavorando sulle leghe di titanio per accoppiarle con tessuto osseo, e nell’AMRC with Boeing a Sheffield ho studiato l’accoppiamento di componenti di resine rinforzate con fibra di carbonio e titanio.  Erano gli anni in cui Boeing, in competizione con Airbus, iniziava a progettare velivoli utilizzando materiali compositi, nello specifico resina rinforzata da fibra di carbonio, un’innovazione importante, perché fino a quel momento per costruire aeroplani si erano utilizzate prevalentemente leghe metalliche».

Arciniegas inizia in particolare a studiare lo sviluppo dei componenti di accoppiamento, perché le caratteristiche meccaniche da una parte delle leghe in titanio, dall’altro delle resine rinforzate con fibra di carbonio sono differenti e bisogna trovare i sistemi per adattarle l’una all’altra nelle parti in cui devono interagire, visto che non si può realizzare l’intero aereo in carbonfibra.

La Boeing stava realizzando in questo modo il Dreamliner, che è stato il primo aereo ad essere realizzato per la maggior parte in materiali compositi, mentre Airbus sviluppava in concorrenza l’A350.

Intorno al 2010, quando l’IIT era attivo da poco più di due anni, Arciniegas si trasferisce dall’Inghilterra a Genova e ottiene una posizione di post doc nel gruppo di Liberato Manna, chimico, per molti anni direttore del programma di Materiali e Nanotecnologia all’IIT, che in quel periodo aveva vinto un finanziamento ERC molto importante.

«Ero la prima ingegnera che entrava nel suo gruppo, tutto formato di chimici. Manna aveva bisogno di una persona esperta in materiali compositi, perché una parte del progetto era dedicata a materiali nanocompositi: precisamente studiare tecniche e metodi per incorporare nanocristalli in matrici polimeriche», spiega Arciniegas. Una matrice polimerica, in parole semplici, è una specie di collante o struttura portante fatta di plastica (cioè di polimeri) che serve a tenere insieme altri materiali, in questo caso nanocristalli, dando luogo a un materiale composito.

 

Le dimensioni nanometriche offrono possibilità nuove

Dato che in questo caso siamo nel campo dei nanomateriali, dobbiamo pensare a strutture che abbiano almeno una dimensione (tra spessore, lunghezza o larghezza) di dimensioni inferiori a 100 nanometri, ovvero 100 milionesimi di millimetro.

Si tratta di un livello di dimensione così piccolo che le caratteristiche dei materiali si modificano e si evidenziano fenomeni che a livello micro o macro non esistono: per esempio è su scala nano che avviene il cosiddetto “confinamento elettronico”, un comportamento da parte degli elettroni differente rispetto a quello che si osserva in dimensioni micro o macro, molto interessante in particolare per quanto riguarda i semiconduttori.
Le caratteristiche che si manifestano in scala nano sono utilizzabili e oggi utilizzate nei campi e nei settori più disparati.

«Nel mio caso specifico – continua Arciniegas – ho iniziato a lavorare con le nanostrutture sintetizzate nel gruppo di nanochimica dell’IIT, al di sotto dei 30 nanometri: oggi nel mio gruppo lavoriamo a strutture bidimensionali, ovvero quasi prive di spessore, che hanno la caratteristica di non essere più interamente inorganiche, ma composte da strati alternati di molecole organiche e strati inorganici»

Ma come si creano queste nanostrutture? Per quanto possa sembrare stupefacente – e la stessa Arciniegas dichiara di essere sempre stata affascinata da questo fenomeno – sono in grado di organizzarsi spontaneamente attraverso una reazione chimica. Arciniegas lo spiega ricorrendo a un esempio fin troppo semplice: è come quando si prepara una torta.

«Pensiamo a un dolce diplomatico, composto da strati di pasta sfoglia e di crema: anche i nostri materiali hanno una parte più morbida di molecole organiche, nel nostro caso della famiglia delle ammine, che si ancorano a livello molecolare con lo strato inorganico, più rigido, che nel nostro caso è composto da un metallo e un alogeno che formano una struttura di perovskite. La struttura caratteristica della perovskite consente da una parte che atomi metallici si leghino ad atomi di un alogeno formando ottaedri che si uniscono tra di loro per realizzare lo strato inorganico, dall’altra che resti uno spazio tra ottaedri inorganici, immaginiamolo come una sorta di buco, in cui si agganciano le molecole che formano lo strato organico. È lo stesso approccio con cui si formano materiali ibridi semiconduttori molto studiati nel campo dell’elettronica, per esempio per realizzare emettitori di luce led».

Il processo di realizzazione di questi nanomateriali multistrato è relativamente semplice e non richiede né un alto consumo energetico né strumentazione complessa: in sostanza si disperde nello stesso solvente la componente organica e quella inorganica, agendo quindi sulla temperatura, portata fino a 150° C o semplicemente lavorando a temperatura ambiente.

«I diversi componenti precursori interagiscono nel solvente, sia spontaneamente sia grazie a un riscaldamento applicato: in realtà è soprattutto un processo creativo che richiede di individuare in partenza le molecole più adatte a generare la sintesi richiesta e il materiale con le proprietà che desideriamo. Grazie alla reazione chimica si ottiene un nanomateriale multistrato in cui i layer organici e quelli inorganici si alternano. La scala nano consente di controllare meglio la distribuzione dello strato organico e inorganico, che produce una quantità di effetti; infatti usando differenti molecole organiche o anche solo modificandone la posizione, si riesce a ottenere una risposta completamente diversa e quindi una varietà di proprietà».

Viene la curiosità di capire che cosa si ottiene in pratica. Che cosa esce dai minuscoli contenitori (2 ml) in cui si preparano le soluzioni? Arciniegas sorride: «Quello che alla fine si ottiene, in pratica, è una sorta di polvere, dei minuscoli fiocchi che potrebbero ricordare i cereali per la colazione, ma su scala nano».

I materiali ottenuti possono avere caratteristiche molto interessanti. In particolare, l’obiettivo del progetto EVA è ottenere un materiale multistrato che abbia un grado di rigidità meccanica progressivo, in termini tecnici un gradiente, in modo da poter fungere da adattatore tra materiali con rigidità diverse.

Spiega ancora Arciniegas: «Premesso che l’interesse per i nanomateriali sta aumentando, perché in ambito tecnologico si va verso una miniaturizzazione sempre maggiore, producendo prodotti di dimensioni sempre più piccole, ci sono diversi casi in cui nascono problemi legati alla rigidità meccanica dei materiali: per esempio in elettronica, per realizzare gli schermi flessibili, ma anche in biomedicina, nel campo delle protesi. Pensiamo per esempio all’abilità della natura nell’accoppiare in modo funzionale materiali di rigidità diversa, come l’osso e la cartilagine. Quando i materiali hanno rigidità diverse sono molto difficili da accoppiare, si crea il rischio di rotture. L’idea del progetto EVA è creare un nanomateriale realizzato con strati organici differenti, in modo da avere una rigidità meccanica progressiva: un nanomateriale, in pratica, che diventi gradualmente meno rigido, all’interno del suo stesso, ridottissimo spessore. Bisogna quindi trovare le combinazioni chimiche giuste perché gli strati diversi coesistano nella stessa struttura: bisogna riflettere sulla cinetica della reazione tra le diverse molecole, verificare esattamente come e in che sequenza si possono incastrare, e la sfida più difficile è che tutto avviene nel contesto della medesima reazione. Si parte da uno screening delle molecole organiche più adatte, che sono innumerevoli, scegliendo le più promettenti e si fanno esperimenti: è ricerca pura».

Le applicazioni pratiche a cui potrebbe essere destinato questo nanomateriale dotato di un gradiente di rigidità sono essenzialmente due, spiega Arciniegas: «Può essere utile nel campo dell’elettronica, quando è necessaria flessibilità, perché l’applicazione di strati rigidi su substrati di polimeri, effettuata per ottenere strumenti elettronici pieghevoli, può portare a problemi, come la delaminazione o il cracking, ovvero le interfacce che si separano. E può essere utile in un campo totalmente diverso, quello della biomedicina, per realizzare materiali da portare a contatto con le ossa, all’interfaccia con la cartilagine: in questo caso c’è una difficoltà ulteriore, perché bisogna arrivare a ottenere materiali non solo con le caratteristiche meccaniche richieste, ma anche completamente atossici. Ma ricordiamoci che non stiamo ancora puntando a sviluppare un prodotto, siamo nel campo della ricerca, in questa fase studiamo le possibili nuove tecnologie di produzione del materiale».

Le molecole candidate sono numerosissime, quindi il progetto prevede la gestione di un grande numero di esperimenti e di risultati: per questo si appoggia anche a sistemi di condivisione e trattamento dei dati che facilitino i ricercatori, come l’AI assisted electronic notebook, una evoluzione del quaderno di laboratorio classico, che assiste i ricercatori nella registrazione, nel controllo, nella trasmissione dei risultati delle sperimentazioni, o il digital twin, che registra e in pratica crea un duplicato digitale consultabile dell’esperimento, in tutte le sue fasi.

«È un lavoro entusiasmante, che prevede una grande multidisciplinarietà. Da una parte abbiamo un importante obiettivo scientifico, dall’altra ci occupiamo di materiali che rispondano alle necessità della tecnologia contemporanea. E c’è anche una parte importante di configurazione di processi: in laboratorio puntiamo a ottenere sistemi per la preparazione di nanomateriali che prevedano l’uso e l’interazione tra strumenti robotici e ricercatori», conclude Arciniegas.
Sicuramente la creazione di un laboratorio automatizzato per la chimica dei nanomateriali è un aspetto estremamente interessante di questo progetto, su cui varrà la pena ritornare.

 

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