Intervista a Giorgio Metta, Direttore Scientifico di IIT
Ringraziamo per la collaborazione Claudio Semini, Head of the Dynamic Legged Systems lab di IIT
Il 26 aprile 1986 si verificò un’esplosione nella centrale nucleare Lenin di Chernobyl in Ucraina. Evento dapprima minimizzato dalle autorità sovietiche con il passare dei giorni venne raccontato con sempre maggiore apprensione fino a divenire il dramma che ancora oggi ricordiamo. Parlarne oggi non è un caso quando l’intero globo è colpito da una pandemia che ha nel contagio la sua forza ancestrale e, fino ad ora, poco controllabile. Con Chernobyl compare forse per la prima volta in termini tanto drammatici e forse sottovalutati il termine contaminazione e i consigli, blandi, per evitarla.
Ma Chernobyl, ed è questa l’analisi che vi proponiamo, diviene il laboratorio nel quale si misurano capacità tecnologiche e intervento dell’uomo con la drammatica e costosa vittoria del secondo. A Chernobyl si consuma subito dopo il disastro anche l’intervento eroico di chi cerca di documentare giornalisticamente il disastro. Un fotoreporter dell’agenzia Novosti, Igor Kostin, e un regista documentarista, Vladimir Shevchenko, sorvolano in momenti diversi il reattore. Entrambi quando sviluppano le loro pellicole le trovano opache o addirittura nere. Pensano ad un difetto di fabbricazione invece quando Igor Kostin dovrà buttare due Nikon perché bloccate e inservibili capisce che l’effetto della radioattività è ben superiore a quanto veniva ufficialmente dichiarato. La prima foto del reattore che Igor riesce a stampare ferma l’immagine quattordici ore dopo l’esplosione. è un’immagine sgranata che esprime nonostante la scarsa risoluzione tecnica una drammaticità e un’idea d’impotenza e morte che solo la serie cinematografica prodotta l’anno scorso riesce a ridare grazie ad un meticoloso lavoro di ricostruzione. Il regista Scevchenko riesce a montare un film di 54 minuti, “Cronache di settimane difficili”, segnato dalle interferenze sonore e luminose create dall’immensa forza radioattiva. Il lavoro di Scevchenko, che morirà un decina d’anno dopo l’esplosione per l’effetto delle radiazioni accumulate, viene descritto come pervase da una “spettralità sincopata”.
Ma la seppur difficile analisi attraverso l’autentica documentazione ci offre l’opportunità di coinvolgere il nostro Direttore Scientifico. Come si ricorderà l’esplosione creò un accumulo di detriti radioattivi sul tetto della centrale. Si trattava di un’autentica bomba radioattiva che andava velocemente smaltita. Ci provarono con pale e picconi alcuni uomini che finirono prima in ospedale e poi all’obitorio. La speranza giunse quando i media mondiali annunciarono l’arrivo dei robot che avrebbero provveduto a risolvere il problema. Ma il livello delle radiazioni comunicato era falso e le macchine issate sul tetto si fermarono immediatamente. Un’immagine indimenticabile è quella di una macchina che si arrende cadendo dal tetto. I detriti vennero smaltiti dagli uomini che con turni scanditi da una sirena gettano con una pala masse informi di sotto mentre i dosimetri segnalano 10.000 rontgen. Molti moriranno e i reduci percepiscono oggi settanta rubli al mese di sussidio.
Giorgio con l’evoluzione che ha avuto oggi la robotica sarebbe stato possibile evitare la tragedia della post esplosione?
La robotica nel campo della gestione delle emergenze avanza molto rapidamente. Ma non credo obiettivamente che oggi si sarebbe pronti a fronteggiare un disastro di tali proporzioni. Dopo Chernobyl ci sono state, purtroppo, altre occasioni in cui la robotica poteva supportare l’uomo, basti pensare al disastro di Fukushima in Giappone, ai recenti terremoti, agli incendi o ai problemi dovuti al maltempo degli ultimi anni. Ancora i robot non sono diventati uno strumento come lo sono altri “mezzi da lavoro”. Dei numerosi studi portati avanti dalla comunità scientifica internazionale, nessuno ad oggi ha prodotto un robot affidabile in ogni situazione che possa davvero aiutare l’uomo nella gestione di tali disastri. Ma posso dire che ci si sta lavorando senza sosta.
I robot costruiti per essere impegnati nelle possibili e diverse calamità potrebbero essere utilizzati in un incidente nucleare?
La sfida tecnologica è davvero molto complessa. Esistono numerosi prototipi promettenti e il nostro Istituto è allineato con quanto nel mondo si sta facendo in questo ambito. Nei nostri laboratori, ad esempio, abbiamo il robot Centauro, frutto dell’omonimo progetto europeo e HyQ Real, sviluppato con il supporto dell’Unione Europea nell’ambito del progetto ECHORD ++, il robot quadrupede, due robot che, grazie alla collaborazione tra gli altri dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile, potranno aiutare l’uomo in caso di incendi, terremoti, alluvioni, inondazioni o malfunzionamenti di centrali nucleari. Soprattutto per quest’ultimo scenario sono necessari ancora alcuni anni di sperimentazione anche se ormai quello dell’incidente nucleare è proprio uno degli scenari che vengono utilizzati per lo sviluppo, la progettazione e la sperimentazione di questa tipologia di robot. La ricerca nel campo dei materiali in questo senso potrà sicuramente dare un grosso aiuto ai robotici per costruire dei dispositivi a prova di radiazioni, fonti di calore, acqua e polveri di ogni tipo. Sono certo che nei prossimi anni riusciremo a supportare l’uomo anche in questi scenari estremi aumentando anche il grado di sicurezza sul luogo di lavoro. A questo proposito non dimentichiamo che INAIL sta investendo molte risorse finanziarie su numerosi progetti di alta tecnologia in questo ambito, dimostrando un approccio lungimirante e concreto.
A Chernobyl vennero utilizzati i bio-robot cioè gli uomini. Mai come in questo caso l’uomo sembra insostituibile e contraddice tragicamente l’dea che i robot sottraggono lavoro all’uomo ma in questo caso sarebbe stato solo positivo. Anche valutando l’emergenza che stiamo vivendo, non è il momento di avere una posizione diversa sulle nuove tecnologie considerando con apertura mentale le problematiche occupazionali ed etiche?
In effetti ci sono state molte voci, un tempo contrarie all’utilizzo di robot, che si sono chieste: “Dove sono i robot in questa pandemia?” Questa è una questione che è stata affrontata anche su prestigiose testate internazionali di settore come Science Robotics e sicuramente solleva temi importanti. Il primo è il problema degli investimenti: ci vogliono investimenti costanti e programmi a lungo termine per introdurre la robotica più massivamente nelle attività produttive; il secondo è rappresentato dalla cultura per l’innovazione: se il comparto imprenditoriale ricevesse incentivi maggiori da parte dei governi per la modernizzazione degli impianti, potremmo trasferire più efficacemente i frutti della ricerca sul mercato. Se a livello globale si fosse stati più lungimiranti, forse oggi le attività di primaria importanza non si sarebbero fermate ma sarebbero continuate grazie al controllo remoto, permettendo all’economia di non fermarsi del tutto. Ovviamente questo non prescinde dai problemi etici e sociali che vanno comunque sempre affrontati. La robotica deve sempre tenere l’essere umano e le sue necessità al centro e nonostante i passi da giganti nello sviluppo di algoritmi di IA nulla prenderà mai il posto della (quasi sempre) meravigliosa macchina cognitiva che l’evoluzione ci ha portato ad essere.
Ricordando Chernobyl vogliamo commemorare tutti coloro che con eroica abnegazione hanno fatto in modo che quella tragedia finisse sotto controllo ma non possiamo dimenticare che questi incidenti hanno permesso agli scienziati di migliorare grandemente i livelli di sicurezza delle centrali e in generale studiare tecnologie che possano essere utilizzate quando l’uomo è in difficoltà.