Cerca
Close this search box.

Dalla biorobotica alle “Smart Bio-Interfaces”: il cammino virtuoso dell’IIT di Pontedera

Intervista a Gianni Ciofani, Coordinatore del Center for Materials Interfaces di IIT (CMI@SSSA)

Pontedera è una città che evoca forti emozioni perché ricorda uno dei poli che segnarono lo sviluppo industriale del nostro dopoguerra. La Vespa e la Piaggio sono entrambi i simboli di quegli anni quando si disputava il primato delle due ruote popolari tra la rotondeggiante moto toscana e la squadrata Lambretta lombarda. Piaggio continua ancora oggi a Pontedera la sua produzione a pochi passi dal centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia. La tradizione dell’industria metalmeccanica è la vicina di casa di un centro di ricerca votato all’innovazione che respira futuro. L’evoluzione della ricerca e dei processi produttivi forse un giorno potrà inventare una collaborazione.

Il centro IIT di Pontedera fu fortemente voluto dal professor Paolo Dario, oggi professore emerito di Robotica Biomedica presso la scuola Superiore S. Anna di Pisa. Il professor Dario è uno dei massimi esperti di biorobotica e con Giulio Sandini di IIT e Patrick Aebischer del Politecnico di Losanna organizzò nel 1989 uno dei primi convegni dedicati alla biorobotica. Al professor Dario, che intrattiene tuttora ottimi rapporti con IIT, è succeduta Barbara Mazzolai con la sua robotica bioispirata. Oggi il centro è diretto da Gianni Ciofani.

Gianni, com’è organizzato attualmente il centro?

Il Center for Materials Interfaces, nato sulle orme del Center for Micro-BioRobotics, ha iniziato la sua attività scientifica l’anno scorso con il rinnovo della convenzione con la scuola S. Anna. Da marzo del 2021 sono diventato il coordinatore del centro. Quest’ultimo vede la presenza di due linee di ricerca gestite da P.I. e un terzo gruppo guidato da un tecnologo. Abbiamo quindi la linea diretta da Mauro Gemmi che si occupa di cristallografia alla nanoscala. Il laboratorio è dotato di strumenti che permettono microscopia a trasmissione elettronica e studi diffrattrometrici dei materiali alla nanoscala. Vi è poi il gruppo guidato da Virgilio Mattoli, indipendente dal punto di vista scientifico ma che non costituisce una linea di ricerca separata. Questi ricercatori si occupano dello studio di dispositivi di elettronica indossabile, fra gli altri anche in collaborazione con il gruppo di Mario Caironi presso IIT-Milano. Sia la linea di Gemmi che il gruppo di Mattoli, sviluppano applicazioni anche in ambito biomedicale, integrandosi così con le attività della mia linea, Smart Bio-Interfacies, che studia le interazioni dei biomateriali con entità biologiche alla nanoscala, con un particolare interesse alle proprietà fisiche dei nanomateriali e la loro influenza sui comportamenti cellulari. Le applicazioni di questi studi sono variegate. Di base ci dedichiamo alla nanomedicina, ma studiando le nanoparticelle non come semplici trasportatori di molecole attive bensì come nanotrasduttori, veri e propri “nanorobot”. Si tratta quindi di stimolare questi ultimi per indurli a dei cambiamenti a livello nanoscopico che portano ad un’attivazione delle cellule con cui sono in contatto. Per esempio, studiamo particelle lipidiche nelle quali è presente una componente magnetica. Con campi magnetici esterni riusciamo a guidare le nanoparticelle lipidiche in una posizione desiderata, riusciamo ad indurre ipertermia inducendo un aumento di calore mediante campi elettromagnetici alternati, e infine riusciamo a visualizzarle in risonanza magnetica grazie alle loro eccellenti proprietà quali mezzo di contrasto. Per questo studio sulle particelle ibride lipidiche magnetiche ho ottenuto l’ERC Starting Grant che si concluderà ad agosto, e per il quale quindi siamo alle prove conclusive in vivo. Lo scorso anno mi è stato inoltre finanziato un individual grant AIRC di cinque anni, condotto in collaborazione con l’ospedale San Martino di Genova, presso il quale il dottor Pietro Fiaschi ci fornisce i reperti di sala operatoria, in particolare i frammenti di tumore cerebrale dai quali isoliamo le cellule e impostiamo i test con l’obiettivo di mettere a punto terapie personalizzate. Sviluppiamo infatti nanovettori lipidici magnetici personalizzati, rivestiti da membrane che estraiamo dalle cellule del paziente da testare su cellule derivanti dal medesimo paziente.

Altre particelle oggetto dei nostri studi sono quelle piezoelettriche. Codeste, in seguito ad una stimolazione meccanica, sono in grado di generare impulsi elettrici. Questo fenomeno è rilevante per l’attivazione di tutte quelle cellule che sono sensibili ai campi elettrici: cellule nervose, cellule muscolari, cellule ossee. Recentemente, abbiamo applicato questa tecnologia per stimolare cellule cancerose con focus ancora una volta sul glioblastoma multiforme; com’è noto, la stimolazione elettrica può ridurre la proliferazione di cellule tumorali: da qui l’idea di intervenire attraverso una stimolazione piezoelettrica. Il nostro lavoro ha evidenziato che questa stimolazione rallenta l’attività di proliferazione della cellula, rallenta la migrazione, rallenta l’invasività e dovrebbe esse quindi in grado di rallentare fenomeni metastatici.

Con quale terapia viene somministrata questa stimolazione?

In combinazione con la chemioterapia, dal momento che utilizziamo le particelle oltre che come trasduttori anche come trasportatori di farmaco. Quindi in queste particelle costituite da polimeri piezoelettrici riusciamo a caricare anche i farmaci chemioterapici.

Studiate altre classi di nanoparticelle?

Sì, ad esempio nanoparticelle antiossidanti, che riescono ad intervenire per eliminare i radicali liberi. Queste particelle sono in grado di comportarsi come degli antiossidanti artificiali e riescono ad abbattere la produzione di radicali liberi nelle cellule. Rispetto agli antiossidanti naturali hanno il vantaggio di avere un’emivita molto più lunga e di comportarsi come dei veri e propri enzimi, e quindi continuano la loro azione di degradazione dei radicali liberi al contrario delle vitamine ad esempio C ed E, che hanno una durata limitata nel tempo. Su queste particelle abbiamo ottenuto due finanziamenti da parte dell’Agenzia Spaziale Italiana e quella Europea. Ciò ci ha permesso di essere a bordo della stazione spaziale internazionale per due volte, nel 2017 e nel 2019, quando abbiamo testato le particelle di ossido di cerio in microgravità su cellule muscolari, e con indagini di transcrittomica abbiamo cercato di individuare quali geni venissero modulati in seguito alla permanenza nello spazio e alla somministrazione delle nanoparticelle. Queste particelle, nonostante abbiano grandi potenzialità, sono inorganiche e quindi anche in questo caso abbiamo lavorato per individuare una controparte organica, polimerica. Da poco abbiamo iniziato a studiare particelle di polidopamina, caratterizzate da un’ottima biocompatibilità, essendo costituite da un polimero derivante dalla dopamina, oltre che ad essere estremamente semplici da sintetizzare. Gli studi su queste nanoparticelle sono concentrati ora su modelli di malattie mitocondriali in collaborazione con l’ospedale Stella Maris di Calambrone in Toscana, e l’ospedale San Raffaele di Milano.

Studiando gli antiossidanti è comparso il vino delle Cinque Terre. Qual è il nesso?

Sono originario di Monterosso e sono testimone diretto della qualità dei vini di questa zona. Alla fine della vendemmia si producono com’è noto degli scarti della torchiatura. Abbiamo iniziato una ricerca per capire cosa questi ultimi contengano, e se sia possibile sfruttare queste sostanze anche in ambito biomedicale. Abbiamo così messo a punto una tecnica di estrazione di composti antiossidanti, coperta da un brevetto, ed in collaborazione con il dr. Andrea Petretto dell’ospedale Gaslini abbiamo analizzato le piccole molecole che risiedono in questi scarti. Sono state analizzate in maniera comparativa le vinacce di uva nera e di uva bianca e, contrariamente alle aspettative, quest’ultima si è rivelata una migliore fonte di antiossidanti. A questo punto abbiamo verificato il potere antiossidante attraverso un semplice modello in vitro della malattia del Parkinson. Abbiamo così potuto vedere come questi estratti siano in grado, parzialmente, di far ritornare le cellule ad una condizione fisiologica contrastando le azioni nocive della sostanza chimica che viene somministrata per indurre il fenotipo del Parkinson.

Questo studio ha aperto nuove strade anche con obiettivi commerciali?

Si, stiamo cercando di andare sul mercato realizzando, attraverso una start up che sta per decollare, una linea di prodotti cosmetici, quindi lontani dal biomedicale, che si basano sugli estratti dell’uva bianca delle Cinque Terre. Abbiamo già testato con successo una crema per il viso antiaging. Mi farebbe piacere però cimentarmi anche sulla nutraceutica che potrebbe far crescere la futura azienda in ambiti collimitanti con il biomedicale.

Quali sono i prossimi obiettivi del tuo lavoro?

Vorrei cercare di avvicinare il più possibile le ricerche che stiamo conducendo ad uno stadio preclinico. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo cercare di ottenere collaborazioni con gruppi che possono realizzare prove in vivo rapidamente e condurre i nostri dispositivi in prossimità della pratica clinica. Altro obiettivo rilevante riguarda lo sviluppo di nuove start up oltre quella già citata. La prima tra queste si occupa dello sviluppo di sistemi complessi per testing in vitro. Si tratta, in questo caso, di superare le tradizionali culture cellulari e cercare di realizzare bioreattori, sistemi dinamici, sistemi fluidici che siano in grado di mimare, con bassi margini d’errore, la situazione reale in vivo. Questa attività rappresenta una importante opzione per i nostri studi futuri perché ci permette di limitare la sperimentazione animale e avere risultati maggiormente predittivi. La nostra idea è infatti quella di combinare queste piattaforme complesse con le cellule del paziente: è infatti molto più predittivo un risultato che ci deriva dalle cellule del paziente piuttosto che quello prodotto dall’osservazione di un modello animale. Va in questa direzione il primo esempio in letteratura del dispositivo in scala uno a uno della barriera ematoencefalica, una struttura anatomico-funzionale che protegge il sistema nervoso centrale. Anche su questo progetto stiamo lavorando al trasferimento tecnologico.

Sono queste, in breve, le linee sulle quali stiamo costruendo il nostro lavoro futuro, alcune daranno risultati a breve, altre a medio-lungo termine, ma tutte avranno un forte impatto nell’ambito delle “Smart Bio-Interfaces”.

Condividi