Dialogo con il Professore Paolo Vineis
Professore, viviamo in un’epoca sospesa. Dopo l’ubriacatura dello sviluppo spesso smodato ora ne denunciamo, in pochi, i danni. Perché questa autolesionistica superficialità?
Inizierei da una premessa ottimistica, se mi e’ concesso: il mondo e’ sempre migliorato se consideriamo gli indicatori sociali e sanitari (per esempio la speranza di vita – con qualche significativa eccezione come la sua contrazione tra i bianchi poveri americani, come dico tra un attimo). Steven Pinker e Hans Rosling ci hanno piu’ volte ricordato come gran parte degli indicatori come la scolarizzazione, il lavoro minorile, i morti in guerra, le malattie professionali, gli incidenti stradali, ecc, siano costantemente migliorati con l’eccezione di eventi come le grandi guerre. Al di la’ delle guerre, vi sono tre eccezioni significative per quanto riguarda la speranza di vita: il Grande Balzo in Avanti in Cina, la fase successiva alla caduta dell’impero sovietico, e l’epidemia di “morti da disperazione” descritta da Deaton e Case negli USA (dovuta largamente agli oppioidi). Se tuttavia consideriamo l’ambiente e l’uso delle risorse naturali, li’ e’ dove Pinker e Rosling sono in difetto; per esempio Pinker sottovaluta enormemente il problema della perdita di biodiversita’, che oltre ad essere un male in se’ avra’ anche un impatto sulla salute umana.
Il nostro messaggio generale (mi riferisco al libro “Prevenire” mio, di Carra e Cingolani) e’ che ogni tecnologia cerca di risolvere un problema ma ne crea di nuovi. Dovremmo prevenire e predire gli impatti negativi delle nuove tecnologie e prepararci ad attenuarli. Se veramente la nuova tecnologia della comunicazione – come sosteniamo nel libro – frammenta la comunita’ reale in tante comunita’ virtuali non comunicanti fra loro, questo problema va urgentemente affrontato per evitare l’impatto cognitivo e culturale che puo’ avere.
Da un lato osserviamo che un gran numero di persone influenti anche a capo di grandi Paesi sottovalutano i problemi ambientali. Dall’altro dobbiamo prendere atto non senza stupore dell’opinione e della pressione di gruppi che negano il valore della scienza. Sono solo apparentemente posizioni molto lontane. Da cosa derivano questi atteggiamenti?
Credo che dobbiamo distinguere due fenomeni diversi ma in parte legati tra loro. Da un lato c’e’ l’incapacita’ della politica di ascoltare seriamente la scienza e prendere le misure che ne conseguono. Talora i politici sono sensibili alle pressioni di lobbies, e comunque interpretano il loro ruolo come quello di puri mediatori tra esigenze diverse, una modalita’ che diventa inaccettabile quando i rischi planetari divengono cosi’ elevati come oggi. Ho partecipato a COP25 a Madrid (United Nations Climate Change Conference), e ho visto come i politici europei siano sottoposti a continue pressioni di Stati come la Polonia o l’Australia che non vogliono rinunciare alle loro prerogative come il carbone.
Secondo il rapporto UNEP 2019, se una seria azione di mitigazione del cambiamento climatico fosse iniziata nel 2010, i tagli di gas serra richiesti per rispettare gli obiettivi di Parigi (un aumento di temperatura inferiore a 2 gradi e possibilmente vicino a 1.5 gradi) sarebbero stati pari al 3.3% per anno (per l’obiettivo di 1.5 gradi) e 0.7% per anno (per quello di 2 gradi). Ma poiché questo non è avvenuto, ora i tagli delle emisssioni devono essere di 7.6% e 2.7%, rispettivamente. E questo si deve interamente ai politici.
Il secondo aspetto e’ legato invece al livello culturale e alle scarse conoscenze scientifiche di ampi settori della popolazione. Come descritto molto bene da Sunstein nel libro #Republic, i social media costringono le persone in “echo chambers” in cui i NoVax comunicano solamente fra loro senza aprirsi all’esterno in un libero dibattito, rafforzandosi continuamente nei loro pregiudizi. Per molte persone Youtube e’ una fonte molto piu’ attendibile dell’OMS o dell’Istituto Superiore di Sanita’, e questo e’ semplicemente tragico. Naturalmente il primo livello (pressioni delle lobbies, malinteso sul ruolo di mediazione dei politici) e il secondo livello (un accesso alle informazioni dissociato dalla logica e dalla cultura) si sorreggono a vicenda.
Ad un indubbio miglioramento complessivo della qualità della nostra vita si contrappone, almeno nel nostro Paese, il decremento culturale che si palesa in diverse forme. Quali sono i motivi di questa contraddizione?
Certamente uno scarso investimento nell’istruzione a tutti i livelli, che comporta una scarsa attitudine a considerare il ruolo positivo della scienza nella vita quotidiana (anche criticamente). In Italia abbiamo avuto una ipertrofia della cultura umanistica, con tutto il bene che questo ha portato, intendiamoci, ma a scapito della cultura tecnico-scientifica. Devo dire che uno dei grandi meriti di un’Europa unita e’ proprio la possibilita’ di interscambi culturali che coinvolgano i giovani, ampliando i loro orizzonti culturali e limitando quel “provincialismo globalizzato” che caratterizza oggi l’abuso dei social media. Un altro motivo e’ la propensione a lavorare in silos, molto piu’ presente in Italia che in Inghilterra. Nell’ultimo anno ho fatto grandi sforzi per avviare un dialogo tra Ministero della Salute e Ministero dell’Ambiente in Italia intorno al cambiamento climatico, senza nessun risultato, mentre in Inghilterra queste collaborazioni sono scontate. Non solo i due Ministeri italiani non sembrano collaborare intorno a questi temi, ma sono rare le circostanze in cui si affrontano i temi ambientali coinvolgendo un antropologo o un esperto di estetica del paesaggio oltreche’ uno scienziato.
Nei suoi interventi lei cita spesso un tema che è alla base di tante criticità: le diseguaglianze nella salute. Come si palesano queste disparità e come si riverberano sul futuro delle persone e della società?
Credo che abbiamo finora soltanto grattato la superficie del problema. Nel network europeo Lifepath che ho coordinato abbiamo fatto alcune scoperte abbastanza sorprendenti. La nostra ricerca mostra infatti come le diseguaglianze abbiano un impatto al di la’ dei tradizionali fattori di rischio comportamentali e addirittura modifichino le molecole del corpo come le proteine o il DNA. Penso che sia necessaria molta piu’ ricerca ma anche un’immediata traduzione in politiche di quanto gia’ sappiamo.
Se ci riferiamo a chi contesta l’attuale struttura delle societa’, un errore politico e’ stato parlare solo dell’1% piu’ ricco e del 99% piu’ povero, mentre in realta’ il problema in termini del consumo di risorse e’ costituito dal 10% o dal 20% piu’ ricco, cioe’ la classe media. E’ una grave illusione pensare che liberasi dell’1% (cioe’ tassarlo pesantemente) sia la soluzione definitiva, perche’ gran parte delle risorse e’ consumato dalla classe media (cioe’ la maggior parte di noi), che e’ responsabile dell’estrazione dissennata delle risorse e delle trasformazioni radicali del pianeta. Accanirsi sull’1% comporta come corollario le teorie del complotto, cioè’ cospirazioni a danno del restante 99% (talvolta vere, ma certamente non la componente principale del problema ambientale che oggi viviamo).
La frammentarietà, a suo modo di vedere, caratterizza il nostro tempo. Serve ricomporre il rapporto tra scienza, tecnologia e politica. Come si può giungere a questo obiettivo?
Ho gia’ accennato alla teoria delle “echo chambers”. Indubbiamente le forme odierne della comunicazione privilegiano la quantita’ sulla qualita’, l’esilita’ sullo spessore, e in generale promuovono la creazione di bolle comunicative. Molto triste per un paese come l’Italia, che ha avuto il Rinascimento che era esattamente l’opposto (ma per un’esigua minoranza della popolazione!). Nel nostro libro questa, tuttavia, e’ la parte dove siamo piu’ incerti. Sono documentati effetti dell’abuso dei social media sulla memoria o sull’umore (depressione), ma ci sono ancora troppe poche ricerche sull’impatto cognitivo
Certamente “pensare bene” implica saper connettere le osservazioni in una catena argomentativa. Sapere non significa disporre di informazioni puntuali ma anche del contesto che da’ alle informazioni una maggiore o minore plausibilita’. Questo e’ forse cio’ che piu’ mi colpisce nelle persone che credono alle teorie cospirative e ritengono Youtube piu’ credibile delle istituzioni: la completa mancanza di consapevolezza di quanto poco plausibili siano teorie come quella del Mossad a proposito delle Torri Gemelle o dei vari complotti delle multinazionali a proposito dei vaccini. Il senso della plausibilita’ e’ un elemento di base della cultura scientifica e significa il ricorso all’intero corpus di conoscenze per valutare se una singola affermazione e’vera o falsa. Proprio il contrario di come vengono usati i social media. Nel libro “Prevenire” ci permettiamo un excursus nell’epistemologia su questi temi.
Lei insegna Environmental Epidemiology presso l’Imperial College di Londra, qual è il clima di questi giorni di Brexit nella capitale del Regno Unito e tra gli accademici?
Direi che dominano incertezza e confusione. Proprio oggi una mia collega italiana di Imperial College (professore come me) mi ha rivelato che cerca di tornare in Italia, e in generale e’ in costante diminuzione, negli ultimi anni, il flusso di studenti e post-doc dall’Europa. Inoltre vi sono preoccupazioni circa la possibilita’ di rimpiazzare realmente i fondi europei per la ricerca. Temi che richiedono un’immediata discussione sono la mobilita’ dei ricercatori (avranno bisogno di un visto se vincono un finanziamento e lo vogliono utilizzare in Inghilterra?), e la trasmissione delle informazioni sensibili come quelle sanitarie. L’Inghilterra dovrà’, in tempi rapidi, stabilire rapporti bilaterali su molte questioni analoghe, prima regolate dalla Comunità Europea. Ci sono anche preoccupazioni, non so ancora quanto fondate, sul fatto che si allentino i controlli sulla qualita’ dei cibi e dell’ambiente. Ma al momento non vedo segnali in questa direzione.
Il coronavirus ci ha brutalmente riportato in scenari preoccupanti dominati dalla paura del contagio. Si cerca di individuare un vaccino. Forse solo le epidemie possono far tornare la fiducia nella scienza?
Non so quanto si possa essere ottimisti. La realizzazione di un vaccino richiedera’ molto tempo (fino a un anno), e prima di allora l’epidemia e’ possibile che abbia avuto il suo corso. Le persone si aspettano risposte rapidissime, e se queste non giungono si ricorre alle teorie cospirative. Un’altra componente della cultura scientifica e’ sapere che i tempi tecnici sono spesso inevitabilmente lunghi. Dovremmo piuttosto essere consapevoli e perfino grati della rapidita’ con cui i virus vengono isolati e il loro RNA sequenziato, qualcosa di inimmaginabile due decenni fa. Credo che la fiducia nella scienza ritorni solamente con grandi investimenti in cultura critica, cioe’ la consapevolezza che la scienza puo’ essere incerta, ma anche che e’ un’impresa aperta e fondata sull’autocritica e l’autocorrezione. Inoltre la cultura scientifica comporta anche una consapevolezza critica delle dimensioni dei problemi. Ogni anno nel mondo muoiono 250.000-500.000 persone (a seconda degli anni) per influenza, e solo in Italia 3.000 persone per incidenti stradali. Ma non per questo il Ministero della Salute ha un’unita’ di crisi composta da psicologi analoga a quella, come ho appreso oggi, istituita per fronteggiare il “panico” da coronavirus.
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È Professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra. E’ vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità e responsabile dell’Unità di Epidemiologia Molecolare ed Esposomica presso l’Italian Institute for Genomic Medicine – IIGM (Torino). Svolge ricerca nel campo dell’epidemiologia molecolare e le sue attività più recenti si concentrano sull’analisi di biomarcatori di rischio di malattia, su esposizioni complesse e su marcatori intermedi derivati dall’uso di piattaforme omiche in ampi studi epidemiologici. È coordinatore di due grandi progetti finanziati dalla Commissione europea: Exposomics (sugli effetti molecolari dell’inquinamento atmosferico) e Lifepath (H2020, su disuguaglianze socioeconomiche ed invecchiamento), entrambi basati sull’utilizzo di tecnologie omiche. Ha all’attivo quasi mille pubblicazioni e diversi libri, tra cui “Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica” scritto insieme al giornalista Luca Carra e lo scienziato Roberto Cingolani.