Inizia così sotto la sua guida la costruzione della maggiore facilities italiana della ricerca. Intervista a Roberto Cingolani, Amministratore Delegato di Leonardo ed Ex Direttore Scientifico di IIT
Nel 2003 nasce a Genova un centro di ricerca sul modello delle migliori istituzioni internazionali. Roberto Cingolani è il primo Direttore Scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Laureato in fisica con un dottorato di ricerca conseguito presso la scuola Normale Superiore di Pisa, porta con sé una solida esperienza internazionale che ha inizio nel 1988 quando entra a far parte dello staff della Società Max Planck di Stoccarda, sotto la direzione del premio Nobel per la fisica Klaus von Klitzing. Il suo percorso professionale continua poi in Giappone e negli Stati Uniti. Fino al 2005, quando diviene Professore Ordinario di Fisica Generale presso la Facoltà d’ingegneria dell’Università del Salento dove fonda e dirige il Laboratorio Nazionale di Nanotecnologie di INFM (Istituto Nazionale Fisica della Materia). Con questo solido curriculum e con una indiscussa reputazione internazionale Roberto Cingolani inizia la costruzione, in certi frangenti anche materiale, dell’IIT.
È un Direttore Scientifico-Amministratore Delegato, un profilo professionale sicuramente innovativo nel paludato e tradizionale mondo della ricerca italiana. Per tutti, dai primi ricercatori ai duemila dipendenti di oggi, è Roberto. I formalismi sono aboliti per lasciare il passo alla passione, alla determinazione, alla costruzione di un diffuso senso di appartenenza e al conseguimento dei grandi obiettivi che Roberto disegna già dal primo piano strategico dell’IIT. La sua competente azione nell’individuazione di talenti dota IIT di un gruppo di ricercatori di primissimo livello. Per la prima volta si narra sui nostri media del rientro dei cervelli in Italia e di ricercatori stranieri che vengono a lavorare nei laboratori di Genova. Selezione, merito, internazionalizzazione, multidisciplinarietà sono tra i concetti più citati e applicati in IIT.
In tutte le interviste di IIT OPENTALK ai primi ricercatori e manager di IIT questi fondamenti vengono ricordati e ribaditi e dimostrano quanto in questi venti anni il lavoro di Cingolani sia stato il cemento per un gruppo di professionisti eccellenti che ora mantengono quella linea con la guida di Giorgio Metta.
Roberto non ama le smancerie e quindi lo ringraziamo solo per avere trovato il tempo per concederci questa intervista.
Roberto, in che modo venne identificato il Direttore Scientifico di IIT nel 2003?
Era stato costituito un board di esperti del quale facevano parte sei premi Nobel e i rappresentanti del gotha dell’industria italiana. Venne messo a punto un contest per le idee. Se ne manifestarono tante che provocarono lunghe discussioni. Alla fine, rimasero due proposte, la prima concerneva la creazione di un centro dedicato alle neuroscienze e la mia che si intitolava Humanoid Technologies, tecnologie umanoidi. Eravamo nel 2004 e questo era il primo embrione d’intelligenza artificiale, robotica, nanotecnologia e neuroscienze unite insieme. Si trattava di un progetto molto avveniristico che ebbe il favore dei valutatori perché ritenuta più innovativa e visionaria. Vi furono attorno a queste proposte delle discussioni molto accese e ricordo che uno dei premi Nobel, Paul Greengard, inizialmente definì il mio progetto “Hollywood Science” diventandone però ben presto uno dei più forti sostenitori. Ebbi l’incarico di mettere a punto il primo piano strategico a partire dall’8 dicembre del 2005. Nel 2006 venne approvato con la definizione delle aree di ricerca, robotica, neuroscienze, nuovi materiali e nanotecnologia che ancora oggi sono elementi portanti di IIT.
Messo a punto il piano strategico, quali furono i primi obiettivi che si individuarono per dimostrare la vitalità di IIT?
Iniziammo a lavorare su di un robot, iCub, che si componeva solo di un braccio, una spalla e una piccola testa, qualcosa di molto lontano dall’androide messo a punto tempo dopo. Si lavorava a tutto l’ecosistema di robot, quadrupedi, bipedi. In parallelo si cominciò a studiare tutta la parte dedicata all’apprendimento, le neuroscienze che avevano a che fare con le scienze cognitive e la parte materiali che poteva offrire soluzioni alla sensoristica del robot e alle componenti costruttive. E questi studi nel prosieguo dell’attività gemmarono altri progetti e nuove conoscenze.
Chi erano i ricercatori che iniziarono con te questa entusiasmante avventura?
Giulio Sandini e Giorgio Metta per la robotica ai quali si aggiunse dall’estero Darwin Caldwell, Nikos Tsakaragis, Fabio Benfenati e John Assad per le neuroscienze, Liberato Manna per i materiali e anch’io contribuii in queste prime fasi trasferendo le esperienze condotte nelle mie precedenti attività scientifiche. Oltre alla collaborazione tra questi eccellenti professionisti, in quel momento c’era anche l’esigenza di reclutare nuovi ricercatori e quindi dedicavo molto tempo ai colloqui, alle interviste con coloro che in un numero considerevole giungevano a Morego e la percentuale di chi veniva dall’estero era del 50% rispetto agli italiani. Ricordo che tutti venivano travolti dall’entusiasmo e la partecipazione che noi mettevano in questa impresa. Eravamo giovanissimi e il nostro appassionato impegno era un forte catalizzatore per gli altrettanto giovani ricercatori che accoglievamo nei nostri nascenti laboratori. Questa parte, molto delicata per l’avvio dell’Istituto, veniva condotta mentre nello stabile che ci era stato assegnato, già sede di ente pubblico, evitando faraonici investimenti immobiliari, tutti noi organizzavamo gli spazi e individuavamo i supporti tecnologici di quella che era la maggiore facilities italiana di ricerca e una delle più grandi d’Europa. In tutto questo furono fondamentali Simone Ungaro, Francesca Cagnoni, Massimiliano Gatti, Raffaele Cusmai e tanti altri bravissimi gestionali e amministrativi.
Selezioni un numero consistente di ricercatori stranieri. Una novità assoluta per il nostro Paese noto per essere un grande esportatore di cervelli.
La fuga di cervelli è un falso problema. I ricercatori li trattieni nel nostro paese e li attrai da altre nazioni offrendo un buon stipendio non a tempo indeterminato, budget di ricerca e infrastrutture sperimentali di alto livello. Quando si è in grado di fare un’offerta così congegnata, con una collocazione geografica di indubbio valore estetico e climatico quale è Genova, la presenza di ricercatori italiani e stranieri è certa. Ovviamente, i detrattori osservano che questa proposta deriva dal fatto che l’Istituto dispone di ingenti fondi. È un falso che accompagna l’IIT dalla sua fondazione. Se si divide il finanziamento annuo di cento milioni per il numero delle persone che ci lavorano il costo pro-capite è più basso rispetto ad altre istituzioni pubbliche. Il costo per persona lievita quando carichi su questo valore alte spese di carattere amministrativo che sostengono la burocrazia di un ente. La gestione dei fondi In IIT è sempre stata orientata al loro utilizzo per sviluppare la ricerca e sostenere i talenti. Alle attività amministrative veniva dedicato poco più del 10 %. In questo modo i fondi venivano e vengono gestiti in modo virtuoso. Se nelle istituzioni scientifiche i costi dell’amministrazione superano, in molti casi, gli investimenti per la ricerca è evidente che la loro attrattività internazionale diventa scarsa.
A differenza di altre esperienze sorte con il sostegno pubblico l’aspetto immobiliare non assume dimensioni e architetture faraoniche e IIT inizia il lavoro in una sede dismessa dell’Agenzia delle Entrate. Quale fu la reazione tua e dei tuoi colleghi?
Ci sentimmo subito a nostro agio e che quello fosse un edificio “usato” non ci faceva nessuna impressione ma apprezzammo invece la possibilità grazie all’utilizzo di una struttura in perfetta efficienza di partire subito con l’organizzazione dei nuovi laboratori. Fu anche questo un momento avvincente della fase di avvio di IIT, oltre al fatto che facemmo risparmiare notevoli risorse economiche evitando un intervento immobiliare nuovo o costosissime ristrutturazioni.
Se le possibili difficoltà logistiche sono diventate opportunità vi sono state in quegli anni altre difficoltà? Quali ricordi ancora?
Le difficoltà sono sempre state le stesse: le critiche al nostro modello e come citavo una interpretazione strumentale dell’utilizzo dei fondi. Nel frattempo, però, i detrattori fingevano di non sapere che all’estero la credibilità di IIT cresceva in maniera esponenziale. Nel 2016 fummo inseriti da Nature tra le Ranking Stars internazionali dei piccoli istituti. Il numero di vincitori di ERC grants fra i nostri scienziati è cresciuto costantemente, attirando molti vincitori dall’estero. Nonostante ciò, una parte del mondo accademico italiano non riconosceva i nostri meriti. Per anni ci fu una costante campagna stampa diffamatoria limitata per fortuna a quotidiani di parte, e qualche attacco anche di tipo politico. Nonostante ciò, abbiamo continuato con lo stesso entusiasmo e determinazione degli inizi il nostro cammino e i risultati in termini di fund raising, brevetti, pubblicazioni, attrazione di stranieri erano incontrovertibili. Credo però che a distanza di vent’anni, pur essendoci ancora margini di miglioramento, la reputazione di IIT sia molto alta, in particolare a livello internazionale. È una sconfitta per tutti coloro che si ostinavano ad osteggiare questo modello che doveva essere complementare a quello esistente, per dare nuove opportunità ai giovani, e non considerato come in competizione con gli altri enti di ricerca. Come succede in Germania dove le fondazioni di ricerca (Max Planck, Fraunhofer, Helmotz etc) completano l’offerta scientifica ai giovani ricercatori.
Quando hai avuto la percezione che IIT era divenuta una realtà consolidata e che era considerato un riconosciuto centro di ricerca di alto livello?
Quando ho deciso di andarmene perché la struttura era robusta e stabile, il piano di successione era ottimo e le infrastrutture, che potevano contare su tre edifici e una decina di outstation nella rete nazionale IIT, permettevano una organizzata operatività. IIT non poteva più fermarsi o retrocedere. A questo punto ho pensato che dopo tre mandati (di cui uno passato in un cantiere) sarebbe stato giusto lasciare spazio ad altri, perché ritenevo di non dover rimanere al vertice troppo a lungo.
La comunicazione del procedere di IIT e l’attenzione alla divulgazione scientifica sono state costanti che hai mantenuto dedicando a questi aspetti tempo e impegno. Perché?
Sicuramente per la mia indole e poi perché parlare come padre ai miei ragazzi, cercando di spiegare le cose in maniera semplice, era la modalità che adottavo per far comprendere anche argomenti complessi. Io diffido sempre da chi si nasconde dietro terminologie astruse per spiegare fenomeni assolutamente banali (ricordo che in ospedale una volta mi chiesero prima di un piccolo intervento chirurgico se avessi già fatto la tricotomia… cioè la depilazione!). Ho sempre avuto la volontà di spiegare le cose in modo chiaro, anche perché sentivo il dovere di far comprendere a ciascun contribuente italiano perché doveva destinare un euro e mezzo all’anno per le attività di IIT. Un’impresa non facile ma che andava assolutamente tentata, e credo che molti dei nostri concittadini sappiano oggi cosa si studia in IIT.
Non condivido chi dice “io faccio cose difficili quindi non te le spiego perché non puoi capire”, penso sempre che costoro non siano molto trasparenti.
In questi venti anni IIT è cresciuto ed è cambiato molto e in meglio: quali sono stati i passaggi rimarchevoli di questo sviluppo?
Oltre quanto in Istituto è stato realizzato attraverso la ricerca di base, si è sviluppato molto il portfolio brevetti e la capacità del trasferimento tecnologico. Rispetto a quanto è stato investito in IIT, cento milioni l’anno, la quantità di tecnologia trasferita, i fondi ottenuti dalle collaborazioni con le aziende, le start-up realizzate, l’incremento del numero dei brevetti evidenziano la grande positività del ritorno dell’investimento e motivano il livello di crescita. In IIT non è così diffusa la consapevolezza di questi risultati ed è questa una sensibilità che va migliorata. Movendo – start-up sulla riabilitazione, e grande progetto con INAIL, rende già positivo l’investimento sull’Istituto solo per la parte robotica. Si deve procedere con convinzione e pragmaticità perché questi sono risultati molto importanti, si deve continuare ad insistere su questa cultura interdisciplinare che permette ai nostri progetti di avere uno sbocco industriale. E penso anche al lavoro condotto dai laboratori che si occupano degli smart materials con i loro brevetti e le start-up attivate. A fronte di questi risultati si deve essere soddisfatti e orgogliosi e sostenere con forza questo impegno.
Il modello di IIT si è affermato nel nostro Paese? Vi sono altre esperienze simili alla nostra? Come sarà il futuro della ricerca in Italia?
No, IIT non si è affermato. È arrivato agli odierni risultati perché un gruppo di persone ha lottato con le unghie e con i denti per tenerlo in piedi. Quando abbiamo tentato di proporre il nostro modello in altri ambiti della ricerca, come pensavamo per Human Technopole, per esempio, le resistenze sono state fortissime e per questo siamo stati penalizzati con la riduzione di fondi oltre ad essere colpiti dai soliti attacchi.
Comunque, al di là di queste vicende, credo che il futuro della ricerca e di centri come IIT debba guardare al modello tedesco che indica la coesistenza tra le fondazioni simili alla nostra e l’università, per generare un modello scientifico molto elevato.
In Italia questa visione non è stata accettata ed è un gran peccato, ma si è sempre in tempo a cambiare. In ogni caso, fino a quando non cambierà il modello di reclutamento, la ricerca italiana non riuscirà ad essere attrattiva e competitiva. Il plus di IIT risiede proprio nel modello di reclutamento degli scienziati, che si fonda su di una serie di parametri che permette di competere a livello internazionale, offrendo a ricercatori provenienti da ogni angolo del globo condizioni professionali e personali di buon livello.
Infine, ho un cruccio che mi è rimasto al termine di questa entusiasmante esperienza ed è quello di non essere riuscito a far ottenere a IIT di poter offrire i dottorati di ricerca perché si deve sottostare al valore legale del titolo. È una imposizione priva di senso, ci si nasconde dietro un pezzo di carta quando si potrebbero organizzare dottorati con valenza industriale accanto ad altri più accademici, e far coesistere i titoli in modo equipollente. Spero che anche questo obiettivo, presto o tardi, venga raggiunto da IIT.
Se mettiamo da parte le questioni nazionali afflitte da burocrazia e battaglie di retroguardia, in una visione globale cosa rappresenta IIT?
IIT è una Fondazione conosciuta ed apprezzata nel mondo. Questa lusinghiera collocazione è frutto della valutazione oggettiva di quanto è stato realizzato con assoluto impegno. Quando le cose funzionano, il consesso scientifico internazionale te le riconosce.