Intervista a Liberato Manna, coordinatore della linea di ricerca NanoChemistry di IIT
Il premio Nobel per la chimica a Bawendi, Brus ed Ekimov è un ulteriore riconoscimento alle nanotecnologie, già avvenuto nel 2016 con l’assegnazione a Sauvage, Stoddart, e Feringa, per non dimenticare, sebbene fosse con altre motivazioni, anche Feynman che immaginò per primo la possibilità dell’esplorazione e manipolazione della materia a livello atomico. Possiamo quindi dire che la chimica del futuro sarà quella che riuscirà a lavorare a quelle dimensioni e ancora più piccole?
La chimica è una materia affascinante e piena di sorprese. Un aspetto della chimica del futuro sarà sicuramente quello di riuscire a costruire, con una precisione atomica, degli oggetti di dimensioni piccolissime in grado di compiere funzioni complesse oppure di avere proprietà uniche. In questo ambito, le macchine molecolari in un certo senso si ispirano ai meccanismi che regolano il funzionamento degli esseri viventi. I quantum dots scoperti e poi perfezionati dai vincitori del premio Nobel per la chimica di quest’anno sono invece la dimostrazione di come, diminuendo le dimensioni di un materiale sempre di più (in questo caso un semiconduttore), fino a renderlo di qualche nanometro (un miliardesimo di metro), le sue proprietà chimiche e fisiche cominciano a diventare sempre più dipendenti dalle dimensioni. Nel caso dei quantum dots, la loro proprietà più spettacolare è il loro colore di emissione della luce, che può essere regolato, in base alle dimensioni, con notevole precisione. Nel caso di alcuni materiali, questa variabilità avviene nello spettro della luce visibile, ed infatti i display delle cosiddette QLED TV che alcuni di noi hanno in casa contengono appunto i quantum dots come emettitori attivi. Posso dire con una certa fierezza che anche il mio lavoro ha contributo alla realizzazione di questo tipo di applicazione. Tale emissione di luce regolabile è una delle dimostrazioni più lampanti di come le proprietà dei materiali siano dettate dalle leggi della meccanica quantistica. Attenzione, ci sono tanti altri ambiti in cui i metodi di fabbricazione si stanno avvicinando a un livello di controllo di una manciata di atomi. Nei microprocessori di ultima generazione che abbiamo nei nostri computer e smartphone le dimensioni dei più piccoli “elementi” sono già di qualche nanometro, e la storia non è certamente finita lì. La sfida certamente sarà quella di realizzare strutture ancora più complesse, a controllo atomico, su larghe scale e con un livello di riproducibilità elevato.
La motivazione della Royal Swedish Academy of Sciences cita chiaramente che il premio va alla scoperta e allo sviluppo dei quantum dots. Ci potresti spiegare perché sono stati così importante per la chimica?
I gruppi di Brus ed Ekimov a partire dai primi anni ‘80 hanno dimostrato sperimentalmente che le proprietà ottiche di emissione ed assorbimento della luce da parte di un materiale semiconduttore sono effettivamente dipendenti dalle sue dimensioni, quando queste sono alla nanoscala. Il gruppo di Bawendi, nel 1993, ha poi dimostrato come queste “palline” di semiconduttori possono essere cresciute in una miscela di molecole che sono molto simili ai tensioattivi (i saponi) che usiamo a casa, facilitandone enormemente il processo di fabbricazione e allo stesso tempo permettendo di raggiungere un livello di controllo sulla sintesi davvero unico per quei tempi. Durante la fabbricazione di queste palline, condotta in un comune laboratorio chimico, tali molecole si attaccano e staccano continuamente dalla loro superficie, garantendo l’aggiunta calibrata degli atomi, ovvero i mattoncini che servono per crescere queste palline delle dimensioni desiderate. Tali tecniche di fabbricazione sono state poi velocemente estese ad altri materiali, in vari ambiti di ricerca, come ad esempio nella medicina e nella catalisi. Nel corso dei decenni, la comprensione delle leggi che regolano il comportamento dei materiali alla nanoscala si è notevolmente approfondita di pari passo con il miglioramento nelle tecniche di fabbricazione.
Non si può non notare che tutti e tre i ricercatori premiati lavorano negli Stati Uniti. Nel 2016 si era rimasti stupiti che il premio Nobel non fosse andato anche all’italiano Vincenzo Balzani, anche egli tra i pionieri delle macchine molecolari. Quest’anno potevamo aspettarci anche qualche altro nome, secondo te? Attualmente quali sono i gruppi di ricerca più impegnati nel settore?
Anche se gli studi iniziali di Ekimov sono stati condotti nella ex Unione Sovietica, non possiamo trascurare l’evidenza che gli Stati Uniti siano da tempo la nazione in cui si concentra maggiormente la ricerca di punta, sia quella di base che quella tecnologica, e dove si si sono stabiliti un circolo virtuoso (che coinvolge università, centri di ricerca e industria) ed una massa critica di persone e mezzi. Non a caso, l’attrattività degli Stati Uniti per i giovani talenti rimane altissima ed è lì che io stesso mi sono formato nei primi anni della mia carriera. Altri nomi che avrebbero potuto figurare come vincitori di questo Nobel? Sicuramente Paul Alivisatos, che è stato il mio mentore a UC Berkeley dal 1999 al 2003 e a sua volta postdoc di Luis Brus nei primi anni ’90 ai Bell Labs. In Germania, Horst Weller all’Università di Amburgo ha dato un contributo vitale a questo settore proprio negli anni in cui questo tipo di ricerche veniva alla luce. Ma mi vengono in mente anche tanti altri nomi di persone brillantissime. Immagino sia sempre difficile tracciare una linea di demarcazione netta.
Attualmente, il numero di gruppi di ricerca impegnati sui quantum dots è cresciuto esponenzialmente, e sicuramente un elenco risulterebbe inevitabilmente incompleto.
All’IIT ti occupi proprio di nanochimica. Numerosi tuoi lavori hanno riguardato l’auto-assemblaggio di nuovi materiali a livello nanometrico, e più di recente ti sei dedicato, insieme al tuo gruppo, all’identificazione di processi e materiali da impiegare in campo energetico. Quale sarà il settore che potrà beneficiare maggiormente dell’uso dei quantum dots e dei nanomateriali in generale?
Nel lontano 1999, quando ho iniziato a lavorare a UC Berkeley nel gruppo di Paul Alivisatos, abbiamo scoperto come le tipologie di molecole coinvolte nella crescita dei quantum dots fossero molte di più di quelle inizialmente descritte. Ad esempio, alcune molecole presenti come impurezze in quei tensioattivi erano particolarmente attive. Quando abbiamo individuato e caratterizzato queste molecole, abbiamo iniziato a ingegnerizzarle e a dosarle nelle sintesi, e siamo così riusciti a modificare anche la forma di queste nanoparticelle, passando da palline a stecchette fino ad arrivare a forme più complicate. Tutto questo non semplicemente per pura curiosità. I quantum dots a forma di stecchetta (noi li battezzammo con il nome di “quantum rods”), ad esempio, emettono luce linearmente polarizzata. Inoltre, diversamente dai quantum dots sferici, questa luce viene meno “riassorbita” da altri quantum rods, il che torna particolarmente utile in alcune applicazioni (ad esempio nei concentratori solari e nei rivelatori di radiazioni).
Da quando ho messo su il mio gruppo in Italia, prima nel CNR (2003-2009) e poi in IIT (dal 2009 in poi), i miei ambiti di ricerca si sono espansi e diversificati. Il nostro punto di forza, i risultati scientifici per cui la comunità internazionale ci conosce e ci stima, riguardano lo studio dei meccanismi fondamentali di crescita e di reattività dei materiali alla nanoscala, ma non ne trascuriamo le applicazioni. Il settore dei display è un sicuramente un nostro ambito di applicazione. Ad esempio, di recente il mio gruppo ha messo a punto, insieme ad una startup in Inghilterra, un prototipo di display con una gamma di colori molto ampia, basato su una tecnologia a quantum dots di perovskiti che abbiamo brevettato. La ricerca sui quantum dots e più in generale sui nanomateriali è una delle linee di punta dell’Istituto Italiano di Tecnologia e coinvolge molti altri gruppi oltre al mio.
Ad oggi, le applicazioni più concrete dei quantum dots emettitori di luce sono sicuramente nei display e nel bioimaging. Ben presto però vedremo applicazioni diffuse in ambiti quali i concentratori solari, i laser, e la rivelazione di radiazioni ionizzanti. Una direzione di ricerca attualmente molto battuta, una corsa che vede anche il nostro gruppo molto impegnato, riguarda la fabbricazione di quantum dots che emettono luce (o che rivelano luce) in maniera molto efficiente nel vicino infrarosso, realizzati con materiali a ridotta tossicità, per applicazioni come la bio-diagnostica, il riconoscimento facciale, la visione notturna e le telecomunicazioni. Crescere quantum dots di questa classe materiali in maniera uniforme e riuscire a renderli stabili nel tempo richiede spesso una chimica molto complicata e ancora poco compresa. Andando ancora più avanti nel tempo, i campi applicativi saranno anche quelli della crittografia quantistica e dei computer quantistici.
Il premio Nobel per la chimica a Bawendi, Brus ed Ekimov è un ulteriore riconoscimento alle nanotecnologie, già avvenuto nel 2016 con l’assegnazione a Sauvage, Stoddart, e Feringa, per non dimenticare, sebbene fosse con altre motivazioni, anche Feynman che immaginò per primo la possibilità dell’esplorazione e manipolazione della materia a livello atomico. Possiamo quindi dire che la chimica del futuro sarà quella che riuscirà a lavorare a quelle dimensioni e ancora più piccole?
La chimica è una materia affascinante e piena di sorprese. Un aspetto della chimica del futuro sarà sicuramente quello di riuscire a costruire, con una precisione atomica, degli oggetti di dimensioni piccolissime in grado di compiere funzioni complesse oppure di avere proprietà uniche. In questo ambito, le macchine molecolari in un certo senso si ispirano ai meccanismi che regolano il funzionamento degli esseri viventi. I quantum dots scoperti e poi perfezionati dai vincitori del premio Nobel per la chimica di quest’anno sono invece la dimostrazione di come, diminuendo le dimensioni di un materiale sempre di più (in questo caso un semiconduttore), fino a renderlo di qualche nanometro (un miliardesimo di metro), le sue proprietà chimiche e fisiche cominciano a diventare sempre più dipendenti dalle dimensioni. Nel caso dei quantum dots, la loro proprietà più spettacolare è il loro colore di emissione della luce, che può essere regolato, in base alle dimensioni, con notevole precisione. Nel caso di alcuni materiali, questa variabilità avviene nello spettro della luce visibile, ed infatti i display delle cosiddette QLED TV che alcuni di noi hanno in casa contengono appunto i quantum dots come emettitori attivi. Posso dire con una certa fierezza che anche il mio lavoro ha contributo alla realizzazione di questo tipo di applicazione. Tale emissione di luce regolabile è una delle dimostrazioni più lampanti di come le proprietà dei materiali siano dettate dalle leggi della meccanica quantistica. Attenzione, ci sono tanti altri ambiti in cui i metodi di fabbricazione si stanno avvicinando a un livello di controllo di una manciata di atomi. Nei microprocessori di ultima generazione che abbiamo nei nostri computer e smartphone le dimensioni dei più piccoli “elementi” sono già di qualche nanometro, e la storia non è certamente finita lì. La sfida certamente sarà quella di realizzare strutture ancora più complesse, a controllo atomico, su larghe scale e con un livello di riproducibilità elevato.
La motivazione della Royal Swedish Academy of Sciences cita chiaramente che il premio va alla scoperta e allo sviluppo dei quantum dots. Ci potresti spiegare perché sono stati così importante per la chimica?
I gruppi di Brus ed Ekimov a partire dai primi anni ‘80 hanno dimostrato sperimentalmente che le proprietà ottiche di emissione ed assorbimento della luce da parte di un materiale semiconduttore sono effettivamente dipendenti dalle sue dimensioni, quando queste sono alla nanoscala. Il gruppo di Bawendi, nel 1993, ha poi dimostrato come queste “palline” di semiconduttori possono essere cresciute in una miscela di molecole che sono molto simili ai tensioattivi (i saponi) che usiamo a casa, facilitandone enormemente il processo di fabbricazione e allo stesso tempo permettendo di raggiungere un livello di controllo sulla sintesi davvero unico per quei tempi. Durante la fabbricazione di queste palline, condotta in un comune laboratorio chimico, tali molecole si attaccano e staccano continuamente dalla loro superficie, garantendo l’aggiunta calibrata degli atomi, ovvero i mattoncini che servono per crescere queste palline delle dimensioni desiderate. Tali tecniche di fabbricazione sono state poi velocemente estese ad altri materiali, in vari ambiti di ricerca, come ad esempio nella medicina e nella catalisi. Nel corso dei decenni, la comprensione delle leggi che regolano il comportamento dei materiali alla nanoscala si è notevolmente approfondita di pari passo con il miglioramento nelle tecniche di fabbricazione.
Non si può non notare che tutti e tre i ricercatori premiati lavorano negli Stati Uniti. Nel 2016 si era rimasti stupiti che il premio Nobel non fosse andato anche all’italiano Vincenzo Balzani, anche egli tra i pionieri delle macchine molecolari. Quest’anno potevamo aspettarci anche qualche altro nome, secondo te? Attualmente quali sono i gruppi di ricerca più impegnati nel settore?
Anche se gli studi iniziali di Ekimov sono stati condotti nella ex Unione Sovietica, non possiamo trascurare l’evidenza che gli Stati Uniti siano da tempo la nazione in cui si concentra maggiormente la ricerca di punta, sia quella di base che quella tecnologica, e dove si si sono stabiliti un circolo virtuoso (che coinvolge università, centri di ricerca e industria) ed una massa critica di persone e mezzi. Non a caso, l’attrattività degli Stati Uniti per i giovani talenti rimane altissima ed è lì che io stesso mi sono formato nei primi anni della mia carriera. Altri nomi che avrebbero potuto figurare come vincitori di questo Nobel? Sicuramente Paul Alivisatos, che è stato il mio mentore a UC Berkeley dal 1999 al 2003 e a sua volta postdoc di Luis Brus nei primi anni ’90 ai Bell Labs. In Germania, Horst Weller all’Università di Amburgo ha dato un contributo vitale a questo settore proprio negli anni in cui questo tipo di ricerche veniva alla luce. Ma mi vengono in mente anche tanti altri nomi di persone brillantissime. Immagino sia sempre difficile tracciare una linea di demarcazione netta.
Attualmente, il numero di gruppi di ricerca impegnati sui quantum dots è cresciuto esponenzialmente, e sicuramente un elenco risulterebbe inevitabilmente incompleto.
All’IIT ti occupi proprio di nanochimica. Numerosi tuoi lavori hanno riguardato l’auto-assemblaggio di nuovi materiali a livello nanometrico, e più di recente ti sei dedicato, insieme al tuo gruppo, all’identificazione di processi e materiali da impiegare in campo energetico. Quale sarà il settore che potrà beneficiare maggiormente dell’uso dei quantum dots e dei nanomateriali in generale?
Nel lontano 1999, quando ho iniziato a lavorare a UC Berkeley nel gruppo di Paul Alivisatos, abbiamo scoperto come i meccanismi di crescita dei quantum dots siano in realtà molto più complessi di quelli inizialmente descritti da Bawendi, e soprattutto che le molecole più attive nel controllarne la crescita non sono esattamente quelle inizialmente ipotizzate, ma delle molecole presenti come impurezze in quei tensioattivi. Quando abbiamo individuato e caratterizzato queste molecole, abbiamo iniziato a ingegnerizzarle e a dosarle nelle sintesi, e siamo così riusciti a modificare anche la forma di queste nanoparticelle, passando da palline a stecchette fino ad arrivare a forme più complicate. Tutto questo non semplicemente per pura curiosità. I quantum dots a forma di stecchetta (noi li battezzammo con il nome di “quantum rods”), ad esempio, emettono luce linearmente polarizzata. Inoltre, diversamente dai quantum dots sferici, questa luce viene meno “riassorbita” da altri quantum rods, il che torna particolarmente utile in alcune applicazioni (ad esempio nei concentratori solari e nei rivelatori di radiazioni).
Da quando ho messo su il mio gruppo in Italia, prima nel CNR (2003-2009) e poi in IIT (dal 2009 in poi), i miei ambiti di ricerca si sono espansi e diversificati. Il nostro punto di forza, i risultati scientifici per cui la comunità internazionale ci conosce e ci stima, riguardano lo studio dei meccanismi fondamentali di crescita e di reattività dei materiali alla nanoscala, ma non ne trascuriamo le applicazioni. Il settore dei display è un sicuramente un nostro ambito di applicazione. Ad esempio, di recente il mio gruppo ha messo a punto, insieme ad una startup in Inghilterra, un prototipo di display con una gamma di colori molto ampia, basato su una tecnologia a quantum dots di perovskiti che abbiamo brevettato. La ricerca sui quantum dots e più in generale sui nanomateriali è una delle linee di punta dell’Istituto Italiano di Tecnologia e coinvolge molti altri gruppi oltre al mio.
Ad oggi, le applicazioni più concrete dei quantum dots emettitori di luce sono sicuramente nei display e nel bioimaging. Ben presto però vedremo applicazioni diffuse in ambiti quali i concentratori solari, i laser, e la rivelazione di radiazioni ionizzanti. Una direzione di ricerca attualmente molto battuta, una corsa che vede anche il nostro gruppo molto impegnato, riguarda la fabbricazione di quantum dots che emettono luce (o che rivelano luce) in maniera molto efficiente nel vicino infrarosso, realizzati con materiali a ridotta tossicità, per applicazioni come la bio-diagnostica, il riconoscimento facciale, la visione notturna e le telecomunicazioni. Crescere quantum dots di questa classe materiali in maniera uniforme e riuscire a renderli stabili nel tempo richiede spesso una chimica molto complicata e ancora poco compresa. Andando ancora più avanti nel tempo, i campi applicativi saranno anche quelli della crittografia quantistica e dei computer quantistici.