(photo credits Studio Visualis)
Intervista a Roberta Villa, giornalista scientifica
“mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere. Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.”
Lo scriveva nel suo ultimo saggio Italo Calvino, “Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millennio”.
La proposta sull’ “esattezza”.
Quell’esattezza che oggi sembra un’utopia. Siamo bombardati da una quantità enorme di informazioni e dati opposti tra di loro e confusionari sulla pandemia. Questo ha portato a uno sconforto intellettuale e di approccio addirittura nei confronti di scienza e medicina da parte dei non scienziati e dei non addetti ai lavori.
Cos’è successo? È inevitabile che ci sia stato un corto circuito tra istituzioni, scienziati, medici, giornalisti e popolazione. Quando è avvenuto secondo te e perché?
La situazione in cui ci stiamo trovando non ha precedenti, perché quando pandemie di questa gravità hanno colpito l’umanità in passato la società era diversissima e non c’erano i mezzi di comunicazione di massa di oggi. Qualche errore quindi poteva essere forse inevitabile, ma non ai livelli a cui purtroppo stiamo assistendo. I danni, anche in questo ambito, potevano essere limitati con una migliore preparazione anche in termini di comunicazione istituzionale, aspetto che avrebbe dovuto essere considerato come essenziale nei piani pandemici.
Da parte dei media, poi, fin dall’inizio c’è stata in Italia una copertura mediatica della pandemia che ha monopolizzato tutta l’informazione, cosa che non è avvenuta nella stessa misura altrove. Ciò ha portato alla necessità di riempire ore e ore di palinsesti radiotelevisivi e decine e decine di pagine di giornali con questo solo argomento, dando parola a chiunque.
È mancata, a mio parere, la capacità di affrontare i due elementi chiave di questa crisi: complessità e incertezza, due fattori connaturati alla scienza stessa e alla sua comunicazione. Medici e scienziati, sempre secondo il mio punto di vista, hanno mancato molto in questo senso. Troppo spesso hanno presentato i problemi e le loro possibili soluzioni concentrandosi solo sul ristretto punto di vista derivante dalla loro competenza specifica, senza sottolineare che l’uno o l’altro aspetto era solo parte di un panorama più ampio, che richiedeva una visione d’insieme. In questo si è sentita molto la mancanza dei giornalisti scientifici, che potevano svolgere un ruolo importante di mediazione.
Tu vivi e comunichi molto spesso con i social media: qual è il termometro della situazione? Come vivono le persone questo continuo incamerare dati, curve, definizioni, e concetti prettamente scientifici che, forse, necessiterebbero di un substrato di conoscenza più profondo per essere compresi appieno?
Purtroppo c’è moltissima confusione che, spiace dirlo, non è alimentata solo da ciarlatani e portavoce dell’antiscienza, ma anche da voci istituzionali e scientifiche. Le persone sono bombardate dai risultati dell’ultimo studio in preprint, mentre, dopo mesi di questa “infodemia” hanno ancora dubbi su che cosa occorra fare, concretamente, per proteggersi in diverse occasioni, come comportarsi quando si hanno sintomi o si è venuti a contatto con qualcuno che li ha avuto o è stato dichiarato positivo, quale valore dare ai diversi tipi di test in circolazione. La poca chiarezza della comunicazione, tuttavia, rispecchia purtroppo anche la farraginosità della risposta concreta alla pandemia, frammentata a livello di regioni e perfino di comuni.
I social media sono un veicolo di informazioni velocissimo. Se non avessimo avuto a disposizione questo oramai potentissimo mezzo di informazione sarebbe stato meglio o peggio secondo te in questa condizione di emergenza sanitaria?
È difficile dirlo, perché i social media sono ormai parte integrante del nostro mondo. Sarò di parte, ma penso onestamente che senza di loro sarebbe stato peggio. Spesso i social media hanno permesso di rettificare informazioni scorrette. Tramite i social media noi divulgatori e giornalisti scientifici abbiamo almeno potuto svolgere, per quanto gratuitamente e su base esclusivamente volontaria, il servizio per il quale non ci viene dato spazio sui media tradizionali, raggiungendo decine o centinaia di migliaia di persone. Moltissime persone ci seguono e aspettano di capire da noi come interpretare i messaggi contraddittori che ricevono da radio, televisione e giornali. Poi certo, ci sono anche le fake news diffuse da Facebook, ma non più che attraverso altri mezzi.
Perché non è possibile stilare un “decalogo” delle fake news sulla Covid-19 comune e sottoscritto dalla comunità scientifica per eliminare ogni forma di disinformazione che in questo stato di emergenza sanitaria induce inevitabilmente ad atteggiamenti non corretti per il rallentamento del contagio?
Prima di tutto perché molti temi sono in divenire, come dicevo prima riguardo all’incertezza, e su molti aspetti non c’è un consenso chiaro. Per chiarire i punti fermi, invece, esistono diversi contenuti di questo tipo, sia sul sito del Ministero della salute, sia su quello dell’Organizzazione mondiale della sanità. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) ha un sito “Dottore, ma è vero che…?”, a cui collaboro anch’io, dove, tra le altre cose, si cerca di rispondere in maniera motivata anche ai dubbi sollevati dalla disinformazione che circola in rete.
Non credi che ad un certo punto la scienza abbia tenuto un comportamento superficiale nei confronti della comunicazione permettendo ai pochi di dominare la scena (televisiva e di rotocalchi e giornali, ma anche social media) per mera rincorsa di popolarità anziché aderenza alle evidenze scientifiche?
Purtroppo sì. Il narcisismo, quando non interessi di altra natura, ha purtroppo preso troppo spesso il sopravvento sulla volontà di aiutare le persone a orientarsi nella pandemia, con il risultato che in questi mesi è calata in maniera significativa la fiducia del pubblico negli scienziati, come ha registrato l’ultima survey di Observa. Peccato, perché, in mezzo a tante conseguenze drammatiche, la pandemia poteva almeno servire ad aumentare la consapevolezza della gente sull’importanza della scienza, a conoscerla meglio e apprezzarla di più.
Immagina di essere un cittadino comune, un cittadino che non ha studiato di scienza ai livelli tali da capire a che punto siamo con la sperimentazione del vaccino a base mRNA, i tempi della scienza e cos’è una curva epidemiologica: cosa deve fare per informarsi e come può scegliere qual è il migliore ritrovo di informazioni utili che non siano propaganda?
Nella situazione in cui ci troviamo è veramente difficile dare consigli. Occorre ricordare i due elementi chiave che dicevo prima: complessità e incertezza. Sarei diffidente nei confronti di tutte le fonti che non ne tengono conto. Attenzione quindi a chiunque si mostri troppo sicuro di sé e delle sue affermazioni. Un’altra indicazione importante è di non prendere mai come definitivo un singolo studio, perché la conoscenza scientifica si crea dalla somma e dalla conferma dei dati ottenuti da gruppi di ricerca diversi, ottenuti nel tempo. Infine, bisogna imparare a riconoscere i meccanismi che facilmente portano ciascuno di noi a cadere nella trappola della disinformazione: quando una notizia sostiene esattamente quel che volevamo sentirci dire, è in linea con quel che già credevamo, accarezza i nostri desideri o le nostre paure, prima di condividerla con entusiasmo è bene fare una verifica in più, e usare il condizionale.
Molti degli scienziati sono ancora restii nei confronti di una comunicazione più generalista e dunque non rivolta solo alla propria comunità di riferimento. In una società postpandemica consiglieresti loro di essere più sensibili ad esigenze generaliste, per calarsi nella realtà di chi vuole solo essere informato e guidato.
Se “comunicazione più generalista” significa “rivolta al grande pubblico non specialista”, mi pare che in questi mesi ne abbiamo avuta fin troppa, seppure non di buona qualità. A ricercatrici e ricercatori non mi permetterei di dare consigli, ma vorrei far notare una cosa: mentre giustamente rivendicano il primato della competenza in un mondo in cui chiunque pensa di potersi improvvisare esperto, troppo spesso cadono nell’errore di pensare che la propria si estenda anche ad altri ambiti, soprattutto a quello della comunicazione, che a sua volta richiede studio ed esperienza. Come gli esperti di comunicazione devono fare uno sforzo di approfondimento dei contenuti, così non basta conoscere perfettamente la materia per comunicarla. Di questo ci stiamo occupando a Ca’ Foscari con il progetto QUEST sulla comunicazione della scienza in Europa. Nel contesto di quel lavoro stiamo preparando una serie di strumenti che speriamo possano aiutare concretamente anche ricercatori, giornalisti, animatori di musei a migliorare qualità ed efficacia della loro comunicazione in ambito