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La sfida

La sesta puntata della rubrica “Invisibili o Supereroi?”

Abbiamo contattato Maria Fossati, una designer che ha saputo fare della sua diversità un punto di forza. Oggi lavora nella linea di ricerca Soft Robotics for Human Cooperation and Rehabilitation di IIT.

Nata con una agenesia congenita dell’avambraccio sinistro, Maria Fossati fin da bambina ha sempre saputo cosa voleva fare da grande: la progettista.

All’inizio ero convinta di fare Architettura; invece ho fatto Design e questo mestiere ha plasmato la mia forma mentis: in tutto quello che guardo vedo il gesto progettuale e il suo valore esperienziale e politico”, ci ha raccontato all’inizio della nostra conversazione.

Dopo la laurea in Design, Maria Fossati ha lavorato come consulente per l’accessibilità e per i diritti delle persone con disabilità, per enti pubblici ed istituzioni private, facendo anche formazione ai progettisti dimostrando come rendere un prodotto, un edificio o un servizio accessibile e non discriminante. Per approfondire questi temi, in particolare i metodi e gli strumenti utili durante il Design Process, la Fossati ha conseguito un dottorato in Design al Politecnico di Milano nel 2016. In particolare, si occupa di ricerca sugli utenti (User Research e Human Factors), di esperienza utente (UX Design – User Experience Design) e di UCD (User Centered Design).

Cosa intendi per diversità e per progettare per la diversità?

“Le persone possono caratterizzarsi per infinite diversità, macroscopiche o microscopiche, visibili o invisibili. Per esempio, siamo tutti un po’ diversi dal punto di vista culturale, così come potremmo esserlo anche dal punto di vista funzionale. Tutte le diversità diventano oggetto di studio. Per esempio, ricordo bene un docente del Politecnico affermare che se dobbiamo disegnare lo zoo è necessario studiare gli animali! Così dobbiamo conoscere l’umano, in tutte le sue caratteristiche e diversità che delineano specifiche necessità ed esigenze, che – a loro volta – alimenteranno i requisiti del progetto che stiamo curando. D’altra parte, viviamo un ambiente quasi totalmente artificiale, quindi progettato. Progettare significa scegliere e definire tutte le parti preparatorie che – lette nel loro insieme – diventano un’esperienza per gli utenti. Per alcuni gruppi di questi ultimi– potremmo dire i più fragili – alcune scelte progettuali possono lederne i diritti (per esempio non garantendo accessibilità fisica e/o sensoriale a tutti), innalzando il semplice atto progettuale ad un vero e proprio atto esperienziale carico di significato. Quello che mi piace quindi vedere è la capacità innovativa, immaginifica della progettualità, in cui il termine stesso indica l’idea di gettare avanti (pro-gettare).”

Le protesi hanno avuto un ruolo importante a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, creando un impatto visivo notevole che col tempo si è perfezionato con un aspetto più “umano” grazie soprattutto alle nuove tecnologie e al design. Voi della vostra linea di ricerca avete sviluppato una mano che potesse ispirarsi al funzionamento di quella umana, la SoftHand Pro, mi racconti come è nata?

La tecnologia ha fatto passi da gigante, riuscendo a dare funzionalità sempre più complesse e un aspetto più umano alle mani protesiche. La Soft Hand Pro ne è un esempio. È una mano artificiale con 19 gradi di libertà, come la mano umana; Il gruppo del prof. Bicchi si è ispirato per la sua progettazione, all’inizio delle sue ricerche, ad un principio osservato nell’ambito delle neuroscienze: ovvero al funzionamento della prima sinergia della mano umana.

Come credi sia cambiata la percezione della disabilità nella società?

Credo che la menomazione degli arti corporei sia vista diversamente a seconda del contesto in cui ci si trova e della cultura di riferimento; Per esempio, se da una parte, guardando a Ovest, la menomazione corporea degli arti può essere percepita come l’evidenza di un eroico atto di guerra; dall’altra, guardando ad Est, un’amputazione potrebbe testimoniare la punizione di un reato. Ed ancora, in molti racconti ed immaginari letterari, l’amputazione è riservata ai “cattivi”, per fare un esempio su tutti: Capitan uncino. In Italia, molti studiosi con disabilità – per esempio Fabrizio Vescovo – ci raccontano, come la diversità e le menomazioni erano viste in società come qualcosa da nascondere. Adesso invece, grazie a competizioni sempre più popolari come le Paralimpiadi, vediamo tante persone con disabilità rappresentate come super eroi o come super umani. La narrativa della persona con disabilità come super eroe è ormai inarrestabile. D’altra parte, il dibattito sul “corpo aumentato” e sul Transumanesimo ci abituano sempre di più all’accettazione di un corpo che non ha più per confine l’involucro di epidermide, ma può essere potenziato artificialmente nel software – e penso ai dispositivi digitali – ma anche nell’hardware – dalla mero completamento dal corpo vitruviano, fino alla sostituzione di arti e/o parti non funzionanti, fino all’aumento delle performance (esoscheletri o parti soprannumerarie come per esempio seste dita). Il corpo umano naturale come unico riferimento sfuma quindi di importanza e lascia spazio a progettualità meno mimetiche, vedendo nuovi colori e materiali quasi a testimoniare il cambiamento culturale epocale.

Se ogni ausilio, siano protesi robotiche, arti o carrozzina o bastoni, per citarne alcune, fosse sviluppato e creato con un design più morbido, creativo e non invasivo, o meglio di impatto visivo che suscita curiosità non indignazione e disprezzo, si potrebbe abbattere il muro della diversità e con il tempo avremo più parità tra le persone?

Per dirlo con le parole del sociologo Harvey Molotch: “Objects have their own life, […], in the sense that they reinforce social practices exactly as social practices strengthen them”. Questa citazione, dal libro “Fenomenologia del tostapane”, ci comunica quanto le pratiche sociali si rafforzino attraverso l’uso di oggetti di uso quotidiano e comune e quanto alcuni oggetti siano in grado di generare cambiamenti nelle pratiche sociali e culturali. Nel momento in cui normalizzeremo l’immagine delle protesi, allontanandoci dall’immaginario stigmatizzante della disabilità, saremo in grado di comunicare la disabilità stessa come caratteristica della persona, in maniera inclusiva. È quello che abbiamo visto accadere agli occhiali da vista che si sono trasformati da ausilio a oggetto alla moda. Su questo tema invito a leggere il collega ricercatore Pullin e il suo titolo “Design meets Disability”.

La cultura della diversità la vediamo sempre più anche nelle sfilate di moda. Quanto pensi che ciò sia importante per cambiare come si guarda alle disabilità?

La moda è un’Arte e spesso riesce ad intercettare i macro-cambiamenti culturali della nostra società. Vedere sempre più la diversità rappresentata sulle passerelle di moda mi riempie di gioia: io leggo l’accettazione e l’inclusione delle diversità umana, una società che è pronta a cercare la bellezza nella diversità umana, non solo nella rispondenza a rigidi canoni estetici ormai superati. Anche noi nel nostro laboratorio abbiamo strizzato l’occhio a questa idea, in particolare durante il Ted che ho avuto l’onore di tenere a Padova, interpretando la finitura di una delle nostre SoftHand Pro alla stregua di un accessorio moda, non più come l’imitazione mimetica (usata per nascondere la menomazione) di una parte di corpo che alcune persone non hanno mai avuto.

 

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