Intervista al Direttore di APRE, Marco Falzetti
In questi giorni è in corso l’evento European Research and Innovation Days organizzato dalla Commissione Europea per creare rete tra gli innovatori e fare conoscere meglio il nuovo programma quadro Horizon Europe (frame programme 9 –FP9). In un’intervista con il Direttore di APRE, Marco Falzetti, IIT OpenTalk ha voluto andare oltre alla dimensione economica del programma, 95,5 miliardi per i prossimi 7 anni, cercando di scorgerne il significato e le opportunità per l’Unione Europea.
Il nuovo programma quadro Horizon Europe dà maggiore importanza all’impatto dei risultati di ricerca, non solo in termini di impatto economico ma anche sociale. Se guardiamo il tutto più da lontano, possiamo dire che la partecipazione alle call per i finanziamenti europei alla ricerca, è anche un modo per potere essere maggiormente cittadini dell’Unione europea contribuendo al suo sviluppo?
L’attenzione verso le ricadute socio-economiche si ha già a partire dai programmi quadro precedenti, dal FP5 e via via con un rafforzamento nei programmi successivi; senza dubbio in Horizon Europe l’attenzione all’impatto è diventata ancora più rilevante. Ad oggi Horizon Europe è il programma comune più grande al mondo in termini di dotazione finanziaria, di ambizione per quanto riguarda gli obiettivi, ma anche per la vastità dei temi coperti; non esiste un’area tecnico-scientifica che non sia contemplata. È un programma davvero europeo basato sul principio della collaborazione tra soggetti europei (ma non solo), attraverso cui l’Unione europea vuole costruire una società migliore. Rappresenta un pezzo di quel percorso che l’Unione ha intrapreso per essere più compatta anche attraverso la ricerca comune, come fece con la CECA e l’EURATOM sin dai suoi primi vagiti. L’enfasi di questo nuovo programma sull’impatto è un modo per non dimenticare che l’investimento del denaro pubblico non deve soltanto produrre conoscenza, ma che tale conoscenza deve essere utile a generare nuove soluzioni in linea con le politiche generali dell’Europa per l’ambiente, il digitale, l’inclusione. In questo senso, partecipando a Horizon Europe si costruisce l’Europa, un’Europa sociale, economica, un’Europa dei cittadini.
Il nuovo programma quadro è molto focalizzato sul trasferimento tecnologico e sul coinvolgimento delle SME nei processi di innovazione. Quale è la risposta delle aziende italiane a queste opportunità di finanziamento europee?
Ogni anno APRE monitora la situazione con un documento pubblico, APREdati, che ci permette di avere percezione del coinvolgimento nazionale. C’è una forte partecipazione del tessuto industriale italiano, ovvero di tutti quegli organismi classificati dalla Commissione come “for profit”, piccole, medie e grandi aziende. L’Italia è il paese che ha la percentuale di partecipazione industriale più alta in Europa. Questo vuole dire che siamo un paese che potenzialmente dovrebbe riuscire a interpretare bene questa richiesta di sviluppare conoscenza e tradurla in innovazione per arrivare al mercato, poiché abbiamo già molti attori coinvolti. Tuttavia questa buona premessa si rivelerà condizione necessaria ma non sufficiente a garantire il risultato se non porremo la giusta attenzione a migliorare l’ecosistema nazionale dell’innovazione.
Guardando ai dati di APRE l’Italia è al 18° posto nella classifica relativa all’innovazione, l’European Innovation Scoreboard 2020, cosa vuole dire e cosa si potrebbe fare di più?
Il posizionamento è dovuto alla fotografia che la Commissione fa ogni anno sui paesi più innovatori dell’Unione. L’Italia non compare tra i paesi più innovatori, sebbene sia tra quelli più industrializzati e con le più importanti economie. Ovviamente bisogna considerare le metriche che vengono usate in una tale fotografia; alcune di esse non aiutano a cogliere gli elementi che determinano l’innovazione nel nostro Paese. Certamente possiamo dire che in Italia spicca la capacità di fare innovazione incrementale, ovvero un’innovazione funzionale alla crescita e all’evoluzione dell’esistente. Le attuali metriche della Commissione tendono a premiare un’innovazione “breakthrough”, dirompente, e su questo fronte come Paese siamo troppo spesso ancora in una posizione di “inseguimento” e non di apripista. La questione è importante, dovremo lavorare su due fronti: non dimenticare l’innovazione necessaria a mantenere e far crescere la competitività dell’esistente sistema di imprese, ma al tempo stesso recuperare spazio e posizioni sull’innovazione più ambiziosa e nuova che rappresenta la base per creare nuova imprenditoria e nuovi mercati. Dobbiamo, insomma, pensare a innovare non solo per l’esistente ma anche per il futuro. Le grandi sfide che la Commissione si sta dando per l’Europa – Moedas lo ha sottolineato – richiedono di inventare soluzioni che al momento attuale non esistono per almeno il 50% degli obiettivi che ci siamo dati nei prossimi 20 anni. C’è quindi molto da fare e non possiamo permetterci di lasciarlo fare solo agli altri paesi. Il 18° posto va certamente stretto al nostro paese.
APRE nasce poco prima dell’istituzione del Mercato unico europeo, assistendo così a un’evoluzione di quella che è oggi l’Unione Europea. Vi è stato un momento che considera il più significativo per gli investimenti in Ricerca e innovazione?
Difficile individuare un evento specifico in un trend che ha fortunatamente visto nel tempo una continua crescita nel susseguirsi dei vari programmi quadro. Forse vale la pena sottolineare il grande cambiamento che, cominciato dalla fine del FP5, ha portato all’evoluzione e al forte utilizzo dei partenariati. Tale evoluzione, che ha visto un ulteriore passo in avanti nell’attuale Horizon Europe, ha portato la Commissione a cercare un coinvolgimento sempre più forte degli stakeholder nel processo di definizione delle politiche e strategie di ricerca in tanti settori ritenuti strategici e fondamentali per il perseguimento degli indirizzi generali dell’Unione, allo scopo di giungere a una comune concertazione delle azioni e delle aree di intervento sulle quali far convergere lo sforzo comune europeo. Inizialmente gli stakeholder erano rappresentati essenzialmente dai principali attori della ricerca e innovazione (industria, ricerca, accademia), ma oggi la Commissione sta richiedendo anche il pieno coinvolgimento della società civile.
Altro tema molto sentito sono le pari opportunità e l’inclusione della diversità, con un’attenzione particolare verso la crescita delle figure femminili in ruoli apicali. Per essere eleggibile dei fondi europei, gli enti che sottopongono un progetto devono dimostrare di avere in atto politiche di genere al loro interno. Può spiegarci meglio questo aspetto?
L’affermazione è corretta. La Commissione renderà obbligatoria, per talune tipologie di organizzazioni partecipanti l’adozione del cosiddetto Gender Equality Plan, un documento che definisce le politiche e le azioni che quell’organizzazione mette in essere per garantire una corretta politica di genere al suo interno. Potrebbe sembrare quasi una forzatura che la Commissione debba intervenire in questo modo su una questione che dovrebbe trovare una sua naturale soluzione nell’organizzazione stessa. Trovo però che sia giusto contribuire, anche attraverso questo tipo di interventi, ad accelerare il raggiungimento di una corretta parità di genere nel mondo della ricerca e innovazione. Bisogna sottolineare, però, che questa nuova richiesta non andrà affrontata per ogni singolo progetto, e quindi non sarà un “problema” del singolo ricercatore, ma sarà responsabilità dell’organizzazione a cui appartiene il formalizzare e determinare certe politiche di genere. All’interno del progetto, il ricercatore dovrà comunque farsi parte attenta affinché il suo progetto sia coerente con le politiche in essere nell’organizzazione e più in generale con tutti i principali aspetti di una corretta politica di genere.
Vuole aggiungere un ultimo commento?
APRE si affaccia a Horizon Europe ribadendo il suo ruolo di riferimento per tutto il sistema nazionale, per il supporto, l’informazione e la formazione atte a promuovere e migliorare la partecipazione italiana al programma. Indubbiamente, alla luce di H2020 la parola d’ordine per noi è sì, promuovere e allargare la partecipazione, ma soprattutto contribuire a migliorare la qualità della partecipazione. Vorrei tornare alla sua prima domanda, sottolineando che anche partecipando a Horizon Europe si partecipa a un’Europa migliore, più inclusiva, più moderna, più competitiva. È un’avventura che tutti dovrebbero fare propria, dalle università alle aziende. Ognuno la può e la deve affrontare dal proprio punto di vista e per il proprio interesse, ma suggerirei di non guardarla solo come opportunità di finanziamento, bensì anche per le tante altre opportunità che l’esperienza di partecipazione a un programma come Horizon Europe offre. Partecipare a un progetto europeo arricchisce sotto diverse forme, per l’esperienza che se ne trae, per il confronto con culture diverse, per il lavorare affianco alle eccellenze, per l’esperienza di gestione. Bisognerebbe, quindi, considerare anche questo insieme di valore intangibile. E in ultima analisi, tutto questo è una partita anche nostra, se non parteciperemo qualcun altro lo farà per noi e così facendo perderemo la possibilità di essere attori della costruzione dell’Europa del futuro.