Intervista ad Alberto Diaspro, coordinatore del Nanoscopy and Nikon Centre@IIT Lab di IIT
Nome: Alberto
Cognome: Diaspro
Luogo di nascita: Genova (Italia)
Ruolo: PI, Nanoscopy
Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Metodi ottici per studiare il vivente su scala molecollare e per comprendere malattie oncologiche e neurodegenerative.
Era questo il lavoro che avresti voluto fare da piccolo? Sì, un promessa fatta alla nonna e il microscopio da sempre tra le mani.
Se non facessi questo lavoro, cosa ti sarebbe piaciuto fare? Il cantautore. I miei modelli italiani Guccini e Vecchioni, stranieri Joni Mitchell, Neil Young e Bob Dylan, lo dico per eccesso di modestia.
Ricordi quella volta in cui hai desiderato abbandonare tutto e dedicarti ad altro: Non ho mai pensato di abbandonare tutto. Ma tante volte ho dovuto stringere i denti per andare avanti e non è finita.
“Publish or perish”. In che modo la pressione della pubblicazione influenza le tue giornate e le tue scelte professionali? Da ragazzo pensavo, e lo penso tuttora, che pubblicare sia una necessità per capire se si sta facendo qualcosa di interessante e offrirlo agli altri e ricevere dagli altri. Poi ho capito che i più la vedono diversamente ma in fondo è problema loro.
Quando hai capito che stavi andando nella giusta direzione nel tuo lavoro? Mi pare una condizione naturale della mia vita cercare di fare ricerca. I successi delle persone che l’hanno fatta con me mi fanno pensare che la direzione sia quella giusta.
Qual è il tuo prossimo obiettivo? Trovare la chiave per comprendere perché una cellula resta sana o meno usando il microscopio ottico eliminando i mezzi di contrasto e realizzare in Italia, nel solco delle intuizioni di Galilei e di Toraldo di Francia, una ditta di microscopia, non per aspetti economici ma culturali.
Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro? Fare capire che il microscopio ottico è ricerca scientifica e non una lavatrice dove butti il bucato e scegli il programma che ti serve.
I ricercatori senior devono necessariamente gestire diversi aspetti burocratici. Apparentemente, questo non sembra adattarsi bene con l’attività di ricerca. Cosa ne pensi? Se incontri belle persone non è un problema, anzi. Se incontri chi la usa per carriera è un cancro che cresce per dirla alla Simon&Garfunkel.
Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto avviene oggi? Il sistema Paese. Trovo assurdo, sebbene utile vista la situazione, che per studiare il cancro o le malattie rare ci si debba affidare ad associazioni private sostenute dai cittadini che pagando le tasse dovrebbero già avere quelle ricerche garantite. Ed è la punta di un iceberg.
La gente parla di scienza fuori dai laboratori e dal mondo accademico?Le persone hanno voglia di sapere ed è un nostro dovere informarle senza ambiguità.
Chi ti ha dato i consigli più importanti durante il tuo percorso? Mio nonno Mario, la mia sposa Teresa e mia figlia Claudia. Tante colleghe e colleghi ma l’esempio più importante l’ho ricevuto da Bruno Bianco, Martin Chalfie e Tulle Hazelrigg.
Cosa diresti alla giovane te che sta concludendo il Dottorato di Ricerca? “Fare o non fare. Non c’è provare”. (cit Yoda, Star Wars)
Per un ricercatore è essenziale lavorare in Paesi diversi? No questo non lo credo. Ogni esperienza, ovunque è importante se realizzata davvero e autovalutata con senso critico.
Se potessi migliorare un aspetto della ricerca, quale sceglieresti?Eliminerei la falsità di non dire chiaramente a una persona che non è portata per la ricerca.