Cerca
Close this search box.

PI Profiles: Andrea Barberis

Intervista ad Andrea Barberis, coordinatore della linea di ricerca “Synaptic Plasticity of Inhibitory Networks” di IIT

Nome: Andrea

Cognome: Barberis

Luogo di nascita: Genova (Italia)

Ruolo: PI, Synaptic Plasticity of Inhibitory Networks

Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Di studiare come le sinapsi, le unità elementari del cervello, definiscono la dinamica dei circuiti neuronali e quindi il comportamento. In particolare mi occupo dei circuiti che controllano ansia e paura.

Pensavi di fare questo mestiere da piccolo? No, io volevo fare il musicista. Ma penso comunque che fra attività scientifica ed artistica ci siano moltissimi parelleli. E non solo perchè, per esempio, la musica è matematica ma anche perchè, secondo me, l’attitudine psicologica dell’artista e dello scienzato sono quasi sovrapponibili. Nel bene e nel male..!

Se non avessi fatto questo lavoro cosa ti sarebbe piaciuto fare? Oltre al musicista, lo stilista di moda.

Quella volta in cui avresti voluto mollare tutto e fare altro: Il nostro lavoro è costellato da insucessi. Per questo, penso che ogni ricercatore sia costitutivamente in possesso di un’enorme resilienza. Quando sono in pesante sovraccarico lavorativo ed emotivo, sogno di partire ed andare a vivere in una foresta. Ma, di solito, questi propositi durano solo per qualche minuto.   

“Publish or perish”. Quanto influenza le tue giornate e le tue scelte lavorative la pressione della pubblicazione? Molto, e penso che sia giusto così: la pubblicazione è il prodotto principale del mio lavoro.

Quando hai capito che stavi andando nel verso giusto? È una domanda interessante e “composita”. Penso che un ricercatore non possa permettersi di avere una “direzione giusta” perchè è la ricerca stessa, ed il campo internazionale, ad imporci continui cambiamenti di direzione che possono essere dolorosi, ma vitali per sopravvivere in un ambiente molto competitivo: nessuno, nella mia esperienza, può permettersi una traiettoria completamente “lineare”, in particolare nella ricerca moderna che cambia alla velocità della luce. Altra cosa, invece, è quando capisci che stai andando nella direzione giusta in termini di crescita intellettuale/scientifica. Devo dire che durante il dottorato ho percepito che mentre facevo ricerca mi sentivo al mio posto, nella direzione giusta, appunto: penso che nella vita “sentirsi al proprio posto” sia uno dei privilegi più grandi.

Qual è il tuo prossimo obiettivo? Contribuire a dimostrare l’importanza delle dinamiche che avvengono a livello della nanoscala nel funzionamento del cervello. 

Qual è l’aspetto più difficile del tuo mestiere? Senz’altro coordinare molti ambiti contemporaneamente. Il “core” del mio lavoro è concepire e realizzare progetti di cui sia riconosciuta l’importanza dalla comunità scientifica internazionale. Nonstante questo sia già sufficiente a saturare completamente le risorse cognitive di un ricercatore, occorre acquisire moltissime altre competenze apparentemente distanti dal lavoro di ricerca come: managing, self-promotion, comunicazione e un po’ di diplomazia, cosa in cui spesso i ricercatori non eccellono!

Il ricercatore senior si deve curare anche di molti aspetti burocratici come condizione necessaria. Apparentemente è un aspetto che difficilmente si concilia con l’attività di ricerca. Come la vivi? Penso che il ruolo del ricercatore moderno, almeno nel campo delle neuroscienze, possa essere associato a quello del “decatleta”. Personalmente preferirei concentrarmi sulla ricerca pura, ma mi rendo conto che è necessario crescere anche nelle altre direzioni tra cui la gestione della burocrazia.

Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto fa oggi? Il punto secondo me non è tanto chi dovrebbe investire, ma come. Percepisco una diminuzione di entusiasmo nella ricerca di base. Questo per me è sbagliato. Una collega americana del MIT con la quale discutevo questo “trend”, mi ha menzionato una frase che racchiude in modo conciso e semplice quello che penso: “you can not cure what you dont’ know”. Secondo me molti stakeholders non la pensano così. Rispetto gli altri punti di vista.

Si parla abbastanza di scienza al di fuori dei laboratori e del mondo accademico? Non saprei. Direi che mi piacerebbe se ne parlasse in modo diverso. In particolare in periodo COVID-19 si è esacerbata una pericolosa dicotomia che era latente. Cioè che la scienza è percepita come panacea universale o come un nemico da combattere. È incredibile essere arrivati a questo punto, e penso che gli scienziati abbiano una responsabilità nell’avere comunicato male. La scienza non è infallibile ma è tutto quello che abbiamo per progredire. Quindi conserviamola e supportiamola.

Da chi hai ricevuto l’insegnamento più importante durante il tuo cammino? Difficile isolarne uno. Il mio supervisor di dottorato mi avvertiva che “con le difficoltà vengono i dubbi” bene ricordarselo spesso! Mi piace anche una frase di Margherita Hack che recitava: la più grande gioa per un ricercatore dovrebbe essere quella di trovare “qualcosa di inaspettato”, che ti permette di cancellare la tua teoria e di costruirne una nuova e, forse, migliore.

Cosa diresti oggi al giovane te che termina il suo dottorato? Studia tutto quello che puoi (anche in altri campi), assorbi come una spugna, ma alla fine non dimenticarti chi sei e cosa vuoi portare di nuovo.

Lavorare in diversi Paesi è fondamentale per un ricercatore? Secondo me si

Puoi migliorare un aspetto della ricerca in generale. La prima cosa che mi viene in mente è aumentare i fondi per la ricerca e nello specifico per quanto riguarda il campo delle neuroscienze, promuoverei la creazione di nuovi corsi di laurea che applichino un criterio quantitativo alle scienze biologiche.   

Condividi