Intervista ad Arianna Traviglia, coordinatrice del Centre for Cultural Heritage Technology (CCHT@Ca’Foscari) di IIT
Nome: Arianna
Cognome: Traviglia
Luogo di nascita: Treviso
Ruolo: PI, Coordinatrice del Centre for Cultural Heritage Technology
Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Tecnologie per i beni culturali, intese in senso lato: si va da machine learning e computer vision per ‘registrare digitalmente’ i beni culturali dal punto di vista materico o studiarne i contenuti, come nel caso di testi o raffigurazioni, alla caratterizzazione dei materiali che li compongono e alla loro salvaguardia tramite layer protettivi. In più ci stiamo aprendo alle possibilità della robotica per la digitalizzazione della cultura materiale.
Pensavi di fare questo mestiere da piccola? Non in questo modo. Volevo fare l’archeologa (e ci sono riuscita) ma quand’ero ‘piccola’ ancora non esisteva tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione ora e non potevo certo immaginare che avrei coordinato un gruppo così multidisciplinare come quello con cui lavoro oggi sulla protezione dei beni culturali.
Se non avessi fatto questo lavoro cosa ti sarebbe piaciuto fare? La cartografa o l’etologa: il primo un ambito che tangenzialmente ho affrontato nella mia carriera lavorando sui paesaggi culturali, il secondo slegato completamente alla mia attuale area di ricerca e più legato alla mia sfera personale.
Quella volta in cui avresti voluto mollare tutto e fare altro: mai
“Publish or perish”. Quanto influenza le tue giornate e le tue scelte lavorative la pressione della pubblicazione? La scrittura è quasi un passaggio naturale della ricerca: mentre si fa ricerca viene naturale mettere per iscritto le proprie impressioni, tenere un diario delle attività che si svolgono, tenere traccia di ipotesi e tentativi, a volte fruttuosi altre volte inutili, quindi ‘riportare’ i nostri pensieri è una parte integrante del nostro lavoro. Pubblicare è un gradino in più: ci mette davanti alla possibilità di far giudicare il nostro lavoro e ci obbliga quindi a fare chiarezza, a noi stessi prima di tutto. Tuttavia, negli ultimi anni, e specie per alcune discipline, si è arrivati ad una situazione in cui pur di scrivere e aumentare il numero delle pubblicazioni si finisce per scrivere anche molte cose inutili, solo per ‘fare numero’ e questo chiaramente a scapito della qualità. Io vengo dalle scienze umanistiche dove il numero di pubblicazioni è in genere molto inferiore a quello delle discipline più tecniche, per la semplice ragione che la ricerca si basa su studi di lunga durata e di paziente collezione di informazioni. Questo modello a volte non è sostenibile e non lo difendo in toto, tuttavia sono molti i ricercatori anche nell’ambito delle materie tecniche che promulgano un ritorno a questa ‘slow science’, a pubblicare quando si ha un risultato di ricerca pronto e valido da esporre e proporre, da ‘fissare nel tempo’ e ad evitare di sfornare continuamente pubblicazioni inutili o relative a ricerca affrettata e poco ponderata per fare numero, con progetti di basso impatto messi insieme solo per aumentare la produttività numerica. Penso che questo richieda una attenta riflessione interna al mondo della ricerca.
Quando hai capito che stavi andando nel verso giusto?: Ogni volta che una mia application a nuovi fondi di ricerca è stata accettata.
Qual è il tuo prossimo obiettivo? Ampliare i contenuti di ricerca in cui il CCHT si può esprimere collaborando attivamente con le varie linee di ricerca di IIT, anche quelle che sembrano avere meno relazioni con i beni culturali.
Qual è l’aspetto più difficile del tuo mestiere? Far dialogare discipline tra loro molto distanti. Il mio background è all’interfaccia tra discipline tecniche ed umanistiche, e a volte far parlare e convivere insieme le esigenze di entrambi i mondi è complesso: non esiste ancora un linguaggio comune a causa di una formazione academica troppo concertata sulla mono-disciplina. Spero che realtà come il CCHT contribuiscano a cambiare questo paradigma.
Tu sei Direttrice di uno degli 11 centri IIT presenti in Italia. Occupi una di quelle posizioni lavorative dove secondo le statistiche la percentuale di donne è bassissima. Di stereotipi con il tuo ruolo ne scardini parecchi, perché sei un’esponente del mondo umanistico che coordina ingegneri, chimici e fisici. Credi di rappresentare un riferimento, un role model, per le ricercatrici? Bisognerebbe chiederlo alle ricercatrici che mi conoscono o che mi hanno conosciuta. Se così fosse, spererei di essere all’altezza del ruolo. Mi piacerebbe rappresentare uno stimolo per le più giovani a insistere, a non dare per scontato che non si possano raggiungere certe posizioni in quanto donna. Sarebbe già molto.
Recentemente è uscito un articolo su Scientific American che poneva l’attenzione su mentorship e STEM e su mentorship e mondo della ricerca in generale. L’articolo scandisce un ulteriore passo avanti, invitando a spostare il focus della discussione dal genere del mentor, concentrandosi su nuovi paradigmi e nuove condizioni di mentorship e leadership che devono essere garantite da tutt* colori si trovino in posizioni apicali per abbattere bias e pregiudizi nel mondo della ricerca. Al di là che sarebbe auspicabile, cosa servirebbe concretamente secondo la tua esperienza? Prima di tutto credo che per i centri di ricerca sia importante conoscere qual è la percezione delle ricercatrici sull’argomento e tenerla monitorata regolarmente. Potrebbero essere utili dei questionari per capire se il problema di gender bias è sentito e quanto, e in caso lavorare di conseguenza per capire quali sono i meccanismi che fanno scattare questa percezione per ridurli ed eliminarli. Credo poi fermamente che interventi mirati per ridurre i bias debbano essere fatti a livello più ampio di società. Un centro di ricerca, così come un’azienda, riflettono condizioni e problematiche proprie della società in cui sono collocati. Sarebbe un po’ contorto pensare di trovare soluzioni per contrastare il gender bias sul posto di lavoro, se poi le ricercatrici una volta rientrate nelle loro case sono immerse in un contesto culturale in cui è ancora la donna ad occuparsi interamente della gestione domestica. Bene che vada aleggia il sentore di “essere fortunate” quando qualcuno ci aiuta, io stessa a volte mi trovo a pensarlo, ma mi chiedo anche, è così surreale che nel 2021 compagna e compagno, moglie e marito sentano di avere gli stessi doveri nei confronti della gestione della famiglia? A volte ho addirittura la percezione che gli enti di ricerca siano più veloci a prendere decisioni importanti su questa tematica, rispetto al tempo necessario alla nostra società per evolvere.
Il ricercatore senior si deve curare anche di molti aspetti burocratici come condizione necessaria. Apparentemente è un aspetto che difficilmente si concilia con l’attività di ricerca. Come la vivi? Adesso come adesso, riuscire a coordinare un centro, con le relative funzioni legate alla gestione del personale, delle attività di ricerca, degli acquisti, della ricerca di fondi, significa destinare pochissimo tempo alla ricerca. Chi nasce come ricercatore e non manager non può che viverla che con un po’ di frustrazione.
Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto fa oggi? Lo Stato Italiano da una parte, i privati dall’altra. Il Mecenatismo nei confronti delle arti in Italia non è ancora sviluppato come lo è in altri Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti dove moltissimi dei grandi musei sono istituzioni tenute in piedi da fondi privati che ricevono in realtà una parte marginale del loro budget dai biglietti, ad esempio, e che in genere finanziano anche la ricerca nella conservazione e digitalizzazione. Pensiamo al Getty e alle attività di ricerca all’avanguardia che finanzia.
Si parla abbastanza di scienza al di fuori dei laboratori e del mondo accademico? Si comincia a parlarne anche grazie al web e alla possibilità di narrare la scienza anche in modo diverso rispetto a quella che era la divulgazione scientifica nel passato, più legata soprattutto alla televisione.
Cosa diresti oggi al giovane te che termina il suo dottorato: conserva quell’entusiasmo e passione per le cose su cui fai ricerca perché sono la driving force che ti sosterrà.
Lavorare in diversi Paesi è fondamentale per un ricercatore? Una conditio sine qua non, oggigiorno. Non si può pensare di non aprirsi a nuovi modi di lavorare, approcci, culture.
Puoi migliorare un aspetto della ricerca in generale. Quale scegli? Snellire la burocrazia, non ho dubbi.