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PI Profiles: Camilla Coletti

Intervista a Camilla Coletti, coordinatrice della linea di ricerca “2D Materials Engineering” di IIT e coordinatrice dei “Graphene Labs” di IIT

Nome: Camilla

Cognome: Coletti

Luogo di nascita: Marsciano (Perugia), Italia

Ruolo: PI, 2D Materials Engineering e Coordinatrice dei Graphene Labs  

Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Lavoriamo nel campo dei materiali bidimensionali (2D), un ambito di ricerca nato da poco e incredibilmente entusiasmante. Dopo la scoperta del grafene nel 2004, questo materiale ha suscitato un enorme interesse: trasparente e con lo spessore di un solo atomo, risulta estremamente resistente e flessibile, con notevoli proprietà elettroniche. Dopo il grafene, sono stati scoperti molti altri materiali 2D con proprietà inedite. Quello dei materiali 2D è a tutti gli effeti un nuovo campo di studio, e questi materiali sono un parco giochi per fisici e chimici. Nel mio gruppo, ci occupiamo di sintetizzare materiali 2D con tecniche bottom-up, utilizzando reattori ad alta temperatura e “ricette” altamente sofisticate che hanno come ingredienti gas, tra cui il metano. Regolando accuratamente temperatura e pressione, otteniamo materiali spessi un singolo atomo, di alta qualità. Studiamo le proprietà di questi materiali sia presi in considerazione singolarmente, dunque a singolo strato, sia quando impilati come un mazzo di carte. Alcuni di questi nuovi materiali 2D sono totalmente inesplorati: pensare di essere la prima persona a scoprire una specifica proprietà o un effetto particolare è estremamente eccitante! Una volta conosciuto il materiale – un po’ come si conosce un amico – pensiamo alle sue possibili applicazioni. Al momento ci stiamo concentrando soprattutto sulle applicazioni optoelettroniche e fotoniche di questi materiali, oltre a quelle biomediche. Per riassumere, ci occupiamo dell’intero processo che va dalla sintesi dei materiali 2D all’applicazione finale. Per questo motivo, il gruppo è fortemente eterogeneo: attualmente siamo circa 17 persone con background che vanno dalla fisica alla chimica, dall’ingegneria elettronica a quella biomedica.

Era questo il lavoro che avresti voluto fare da piccola? Da bambina non avrei mai immaginato di diventare una scienziata. Nella mia mente, gli scienziati erano tutti uomini (e piuttosto vecchi!) e, sebbene fossi molto affascinata dalle storie di Einstein e dai libri di Stephen Hawking, non ho mai pensato che avrei potuto perseguire una carriera in ambito scientifico. Ma ero davvero interessata ad argomenti come l’astronomia e l’archeologia. A 12 anni sognavo di diventare attrice teatrale, a 15 pittrice, solo più tardi mi fu chiaro che sarei diventata senza dubbio astronoma e avrei studiato la sfera celeste. Ma non è successo! Anche se si potrebbe dire che l’estremamente grande e l’estremamente piccolo sono due facce della stessa medaglia.

Quello che dici evidenzia quanto sia importante la sempre maggiore presenza di figure femminili nel mondo del lavoro e in generale delle role model, per diminuire i bias culturali e dunque il gender gap nelle generazioni future. Certamente. Per fortuna oggi la situazione è migliorata, ci sono sempre più donne che lavorano in settori storicamente maschili, ma sicuramente non siamo arrivati a rompere il cosiddetto “soffitto di cristallo”. Sogno un futuro prossimo in cui non ci siano limiti a quello che una bambina immagini di poter diventare.

Quella volta in cui hai desiderato abbandonare tutto e dedicarti ad altro: All’inizio della mia carriera accademica, durante i primi mesi del mio Dottorato di Ricerca alla USF, negli Stati Uniti. Era il 2004, ed andare negli States era stato davvero un salto nel buio, uno shock culturale. Internet non era ancora molto sviluppato, e non esistevano le possibilità di connettività che conosciamo oggi. Ho pensato spesso di tornare a casa, e nel momento in cui ero letteralmente pronta a prendere il primo volo di ritorno mio padre mi ha fatto una sorpresa venendo da me per un paio di settimane. Da quel momento, tutto è diventato improvvisamente più facile e ho iniziato ad amare la mia vita americana.

“Publish or perish”. In che modo la pressione della pubblicazione influenza le tue giornate e le tue scelte professionali? Se si sceglie una carriera accademica, la pressione della pubblicazione è forte fin dalle prime fasi, quindi dal Dottorato, e diventa in seguito ancora più forte quando si è “sotto valutazione”, ovvero durante la tenure track. È necessario sovraperformare per avere una possibilità di non cadere nella leaky pipeline della ricerca: questo significa ottenere risultati eccellenti e solidi cercando allo stesso tempo di essere veloci, aspetto necessario in un campo competitivo come quello dei materiali 2D. Nel mio caso, è stato di grande aiuto avere un gruppo numeroso grazie a progetti esterni finanziati dall’UE, come il progetto Graphene Flagship, con ottimi membri e obiettivi ben definiti. E, naturalmente, tanto duro lavoro. La ricerca non si ferma mai: ricordo di aver completato la sottomissione di un articolo ad un giornale, stando al telefono con due miei postdoc mentre entravo in sala parto per il mio secondo figlio! Storie di ordinaria follia nel mondo della ricerca…

Hai citato il fenomeno noto come Leaky Pipeline, ossia la discrepanza tra il numero di donne che raggiungono alti livelli del percorso di studi come laurea e dottorato e il numero di donne che ricopre ruoli lavorativi apicali. L’hai riscontrato da vicino? Purtroppo si. Molto spesso le donne si trovano ancora a dover scegliere fra lavoro e famiglia. Le non pari opportunità di carriera e l’impianto socio-economico poco adiuvante portano molte donne ad interrompere il proprio percorso accademico. C’è ancora strada da percorrere, e per questo auspico un numero sempre maggiore di interventi da parte dell’Europa e del governo italiano volti a scardinare la disparità di genere.

Quando hai capito che stavi andando nella giusta direzione? Nel 2007, dopo aver completato il mio Dottorato di Ricerca, ho iniziato un postdoc al Max-Planck-Institute di Stoccarda concentrando i miei studi sul grafene. Tre anni dopo, il 5 ottobre 2010, il premio Nobel per la fisica è stato assegnato ai due fisici russi che avevano isolato e studiato il grafene solo 6 anni prima. Pochi mesi dopo sono stata assunta da IIT con il difficile compito di avviare da zero la ricerca su questo materiale. Era una scelta rischiosa per un postdoc: con nessun “senior” a dirigere la mia ricerca, avrei potuto avere successo o fallire rovinosamente. Ho lavorato davvero sodo in quei primi anni all’IIT per produrre conoscenze significative e d’impatto, e quando ho iniziato ad essere invitata alle principali conferenze del settore ho capito che ce l’avevo fatta da sola, senza un mentore che mi aiutasse o mi “coprisse le spalle”. O meglio, non completamente da sola: devo moltissimo alle persone eccezionali che in quei primi anni facevano parte del mio team.

Qual è il tuo prossimo obiettivo? L’obiettivo a breve termine è la creazione di una struttura all’avanguardia per lo studio combinato delle proprietà elettroniche e strutturali dei nanomateriali. Uno strumento da sogno per gli scienziati di superficie! Avremo presto uno strumento interno di spettroscopia di fotoemissione risolta in angolo (ARPES) direttamente collegato a un microscopio a scansione a effetto tunnel (STM), che sarà determinante per lo studio di una vasta gamma di materiali a bassa dimensionalità, con particolare attenzione ai materiali quantistici. 

Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro? Il fatto che non si smette mai di lavorare. Ma probabilmente è inevitabile quando si ha passione per quello che si fa. La ricerca non prevede “orari di lavoro”, ma a volte ti senti esausto.

I ricercatori senior devono necessariamente gestire diversi aspetti burocratici. Apparentemente, questo non sembra adattarsi bene con l’attività di ricerca. Cosa ne pensi? Come molti colleghi, non amo la burocrazia. Nella vita personale sono un disastro con le scartoffie, è qualcosa che odio. Purtroppo nel lavoro non posso delegare questo aspetto (anche se mi piacerebbe farlo!) e mi limito a gestirlo cercando di fare del mio meglio. Quello che mi innervosisce è il tempo che richiedono questi aspetti burocratici, che spesso occupano gran parte della mia giornata.

Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto avviene oggi? Sicuramente lo stato italiano. Mi piacerebbe anche vedere una maggiore interazione tra aziende e istituti di ricerca/università, come succede in Germania: questo crea un circolo virtuoso vantaggioso per entrambi, industria e istituti di ricerca, e in definitiva per il Paese. Con il nostro gruppo cerchiamo di lavorare anche in questa direzione. Attualmente abbiamo diversi progetti di ricerca con aziende come Aixtron, Ericsson e Nokia.

La gente parla di scienza fuori dai laboratori e dal mondo accademico? Sì, ma troppo spesso è vista come qualcosa di molto distante. Oggi siamo proprio noi, scienziati e comunicatori scientifici, ad avere il compito di riempire questo gap; per il prossimo futuro mi auguro che un’educazione scientifica solida e ben strutturata per le giovani generazioni aumenti la fiducia nella scienza.

Chi ti ha dato i consigli più importanti durante il tuo percorso? Il mio tutor di Dottorato Stephen Saddow. Mi diceva: “Pensa fuori dagli schemi”.

Cosa diresti ad una te stessa più giovane? Non sottovalutarti mai.

Per un ricercatore è essenziale lavorare in Paesi diversi? Secondo me è un’esperienza stimolante, che arricchisce e apre gli occhi a un ricercatore. Consiglio vivamente a tutti gli studenti a cui faccio da mentore di vivere e fare ricerca fuori dall’Italia almeno per qualche tempo. Io ho vissuto all’estero per 7 anni: in Svizzera per la mia tesi di laurea, negli Stati Uniti per il Dottorato di Ricerca e in Germania per il postdoc. Anni preziosi che mi hanno formata come scienziata e come persona.

Se potessi migliorare un aspetto della ricerca, quale sceglieresti? La meritocrazia. Non dovrebbe essere un’utopia.

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