Intervista a Gabriella Panuccio, coordinatrice della linea di ricerca “Enhanced Regenerative Medicine” di IIT
Nome: Gabriella
Cognome: Panuccio
Luogo di nascita: Roma, Italia
Ruolo: PI, Enhanced Regenerative Medicine
Di cosa si occupa il tuo team di ricerca?
Sviluppiamo sistemi bioartificiali per la rigenerazione del cervello. Ad oggi, i danni cerebrali non possono essere guariti in maniera completa, efficace e sicura; l’unica cosa che possiamo fare per le persone colpite da danno cerebrale è aiutarle a migliorarne i sintomi grazie all’assunzione di farmaci, se disponibili, o attraverso dispositivi elettronici che stimolano il cervello (le cosiddette neuroprotesi), come per il morbo di Parkinson. La nostra missione è compiere quel salto concettuale che sposterà il paradigma degli interventi medici dal trattamento alla guarigione dei disturbi cerebrali ad oggi incurabili. Il nostro sogno è poter essere in grado, un giorno, di curare i danni cerebrali attraverso trapianti di tessuto, una possibilità già reale solo per altri organi del corpo umano, come la pelle. Perseguiamo la nostra missione nell’ambito di un grande progetto di collaborazione europeo che fonde concetti e metodi di medicina rigenerativa, neuroprotesi e intelligenza artificiale. La medicina rigenerativa è un ramo delle scienze della salute che impiega cellule staminali o tessuti prodotti in laboratorio per riparare o rigenerare organi. La ricerca all’interno del mio team si concentra sui metodi di riproduzione del tessuto cerebrale, studiandone gli impulsi elettrici e l’interazione con il tessuto cerebrale originario. La medicina rigenerativa, basata su un approccio puramente biologico, presenta molte sfide: non sappiamo ancora come replicare una parte specifica del cervello, né possiamo controllare con precisione l’integrazione del tessuto cerebrale bioingegnerizzato nel cervello del paziente. Aspetto ancora più cruciale, l’innesto di tessuto cerebrale ha bisogno di tempo per integrarsi completamente all’interno del cervello ospite, che rimane tecnicamente malato fino al completamento del processo di integrazione: per questo motivo, in collaborazione con gli altri partner del progetto, stiamo sviluppando neuroprotesi neuromorfe, dispositivi elettronici da impiantare nell’innesto per emulare e integrare la funzione cerebrale (da qui “neuro” – morfe). Questi dispositivi fungono da controparti artificiali, nonché angeli custodi del tessuto cerebrale trapiantato, guidandone l’integrazione all’interno del cervello ospite danneggiato e impedendo che l’innesto di tessuto cerebrale venga coinvolto nell’attività patologica che il cervello ospite può generare nel corso del processo di riparazione. Stiamo inoltre sviluppando algoritmi di intelligenza artificiale, un potente approccio per la comprensione delle dinamiche della funzione e disfunzione cerebrale, con l’obiettivo di applicarli nell’ambito delle neuro protesi: questo consentirebbe alle neuroprotesi funzionalità sensibilmente superiori rispetto a quanto si potrebbe ottenere con una normale programmazione da parte del medico, gestita procedendo a tentativi e secondo la conoscenza attuale della funzione cerebrale. Senza intelligenza artificiale, in grado di prevedere e affrontare ogni imprevisto, sarebbe difficilmente possibile regolare il comportamento delle neuroprotesi per gestire sul momento improvvisi cambiamenti nella dinamica cerebrale. Tutti questi elementi consentono di potenziare la medicina rigenerativa a livello cerebrale; da qui il nome della mia linea di ricerca, Enhanced Regenerative Medicine (Medicina Rigenerativa Potenziata).
Era questo il lavoro che avresti voluto fare da piccola?
Sono sempre stata molto curiosa e appassionata di scienza e matematica. Ero una di quei bambini che chiedono in continuazione “perché?” e smontavo i giocattoli per capirne il meccanismo. Non avevo la parola “scienziata” ben chiara nella mia mente, ma fin da bambina desideravo capire come il cervello riesca a controllare il nostro corpo e la nostra mente. Ai miei occhi era un mistero, e gli enigmi hanno sempre catturato la mia attenzione. Da piccola una volta mio padre mi disse che il cervello non può essere riparato, e in qualità di “bambina perché” ho voluto capirne la ragione e studiare i modi per renderlo possibile in futuro. Era una sfida, volevo affrontarla. Ero anche molto curiosa di comprendere l’elettricità, in particolare quella cerebrale. Quindi: no, non pensavo “voglio fare la scienziata”. Questa prospettiva è diventata chiara più tardi, alle superiori, ma ho sempre avuto una predisposizione innata nei confronti della scienza. Ho deciso di studiare Medicina per capire come funziona il cervello e come la sua funzione e disfunzione abbia un impatto sul corpo nel suo insieme. Ho poi ottenuto un Dottorato di Ricerca in Biofisica per studiare la bioelettricità cerebrale e da lì ho seguito il mio percorso verso le neuroscienze computazionali e la neuro ingegneria. Ed eccomi qui, a guidare un progetto che unisce tutti questi ingredienti.
Se non facessi questo lavoro, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
È una domanda molto difficile! Onestamente, non mi immagino a fare nient’altro. Essere in laboratorio mi fa sentire a casa. Potrei anche essere un medico, ma non avrei potuto essere costantemente alla ricerca di nuove soluzioni a problemi annosi, mentre ho sempre voluto essere in prima linea di fronte alle sfide. Per mia inclinazione naturale e mia missione personale, ho bisogno di fare qualcosa di creativo, indipendente e utile agli altri, qualcosa che permetta di svelare misteri, fare nuove scoperte, creare qualcosa di nuovo. La scienza, e in particolare la ricerca che conduco ora, è l’unica professione che mi può dare il perfetto equilibrio tra creatività e razionalità: è utile agli altri e mi permette di unire tutte le mie passioni per le neuroscienze, la matematica, l’ingegneria e, non meno importante, la medicina.
Quella volta in cui hai desiderato abbandonare tutto e dedicarti ad altro:
La vita è fatta di alti e bassi, momenti belli e momenti brutti, momenti difficili. In realtà non ho mai pensato di abbandonare la scienza, che per me è una missione. E durante i momenti più brutti o difficili mi sono detta: “vai avanti”. Vedo le sfide come opportunità. I miei amici mi conoscono come quella che non molla mai. Non l’ho mai fatto e ne è valsa la pena.
“Publish or perish”. In che modo la pressione della pubblicazione influenza le tue giornate e le tue scelte professionali?
Personalmente credo che questo non sia il modo migliore né il più appropriato per giudicare il valore di uno scienziato. Purtroppo molti enti di finanziamento e istituti di reclutamento tengono maggiormente in considerazione la quantità piuttosto che la qualità o la rilevanza delle pubblicazioni, quindi, in un certo senso, questo potrebbe influenzare i progressi della mia ricerca se non tengo il passo con le pubblicazioni. Ma non mi preoccupa particolarmente, né influisce sulle mie scelte professionali. L’aspetto più importante delle pubblicazioni è condividere la ricerca con gli altri, per essere utile alla comunità scientifica e, in definitiva, al progresso della società. In tutto questo, ispirazione, motivazione e integrità sono fondamentali, e li considero prioritari rispetto a “pubblica o muori”.
Quando hai capito che stavi andando nella giusta direzione?
Dopo il mio primo post doc ho deciso di cambiare rotta e di intraprendere il cambiamento che ritenevo necessario per perseguire la mia visione scientifica. Mi mancavano alcuni ingredienti, e sentivo la necessità di colmare quel vuoto di conoscenze e competenze per avere un quadro più chiaro di ciò di cui avevo bisogno per realizzare la mia visione: curare i danni cerebrali. Il mio secondo post doc nel laboratorio Theoretical Neurobiology and Neuroengineering guidato da Michele Giugliano all’Università di Anversa, e il terzo come borsista Marie Curie qui all’IIT nel laboratorio Neural Interfaces and Network Electrophysiology guidato da Michela Chiappalone hanno rappresentato due importanti punti di svolta: mi hanno dato una serie di preziose opportunità in termini di crescita sia personale che professionale, e mi hanno aiutata ad ampliare la mia rete di collaborazioni. Sapevo che stavo per uscire dalla mia zona di comfort, ma questo non mi spaventava affatto, al contrario, ero entusiasta. Durante questi post doc ho visto chiaramente il mio futuro percorso e la mia crescita come scienziata multidisciplinare. Ho iniziato a vedere la mia strada con maggior chiarezza e mi sono resa conto che in realtà stavo mescolando gli ingredienti necessari per perseguire la mia visione scientifica. Questa scelta ha effettivamente innescato una reazione a catena positiva, grazie alla quale ora sono Principal Investigator e coordino un team multidisciplinare di scienziati europei, fondendo tutte le diverse esperienze che ho acquisito grazie al cambiamento fatto. Siamo tutti fortemente impegnati in quello che considero il progetto dei miei sogni. Mi ritengo molto fortunata. Sono convinta di aver fatto la scelta giusta nel prendere questa direzione.
Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro?
Sapere che, mentre gettiamo le basi per le nuove terapie del futuro in grado di dare nuova speranza alle persone, sono necessari anni per raggiungere obiettivi importanti. Vengo spesso contattata da persone che mi chiedono se posso fare qualcosa per aiutarle, ma so che siamo solo all’inizio di un viaggio di ricerca che sarà molto lungo. Mi fa sentire triste e frustrata, con quel senso di impotenza dovuto all’impossibilità di aiutare queste persone in questo momento. Nell’ambito della ricerca è normale che gli studi durino anni, ma per le persone che vivono con un disturbo cerebrale incurabile, un solo giorno può essere un incubo.
I ricercatori senior devono necessariamente gestire diversi aspetti burocratici. Apparentemente, questo non sembra adattarsi bene con l’attività di ricerca. Cosa ne pensi?
Terribile. A volte vorrei essere ancora un post doc… Questo dice tutto. Ma ne vale ancora la pena, perché ora ho il mio team, posso perseguire la mia visione e, cosa ancora più importante, posso trasmettere la mia esperienza ai miei studenti.
Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto avviene oggi?
Vivo in Italia e sono di origini italiane: penso che il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione del nostro Paese dovrebbero investire di più, sia in termini di opportunità di finanziamento sia di bilancio. In base alle disponibilità attuali, l’idea di perseguire la ricerca scientifica con sporadiche richieste a budget limitato è del tutto irrealistica. Nel più ampio contesto dell’Unione Europea, penso che stiamo attualmente puntando verso una ricerca più orientata alle applicazioni, dove il livello di disponibilità tecnologica è già molto elevato. Ho l’impressione che la maggior parte delle richieste di finanziamento tendano a saltare la fase di ricerca di base, che è un prerequisito assoluto e fondamentale per il progresso tecnologico della nostra società. Mi sembra che, in generale, si preferisca avere un uovo oggi piuttosto che una gallina domani, e che la lunga e tortuosa strada della ricerca scientifica di base verso le nuove tecnologie sia in qualche modo trascurata. Ma è fondamentale tenere presente che la tecnologia di cui disponiamo oggi esiste grazie al lavoro pionieristico degli scienziati che si dedicano alla ricerca scientifica di base: se Marie Curie non avesse approfondito il suo lavoro in chimica e fisica, oggi non avremmo i raggi X e tutta la tecnologia che è derivata dalle sue scoperte all’avanguardia.
La gente parla di scienza fuori dai laboratori e dal mondo accademico?
Sì, molto! Spesso quando parlo con persone che non sono scienziati e scoprono che io lo sono diventano molto curiose e iniziamo a parlare proprio di scienza. C’è molta curiosità sul lavoro degli scienziati, sulla loro vita quotidiana in laboratorio, sulle tecnologie emergenti e le nuove terapie mediche. Penso che la gente sia affascinata dalla scienza e dalla tecnologia e sia in qualche modo mentalmente proiettata verso un futuro di tecnologie prima inimmaginabili, con la speranza di arrivare a guarire malattie oggi incurabili.
Chi ti ha dato i consigli più importanti durante il tuo percorso?
Ricordo quattro consigli fondamentali che mi hanno aiutata a diventare chi sono oggi. Il primo, il più importante, arriva dal mio ex pediatra che, da adolescente, mi diceva: “Nella vita, devi crearti un obiettivo”. A quell’età avevo già in mente le Neuroscienze e mi ha fatto capire che dovevo impostare i passi della bambina che ero per poter diventare una neuroscienziata. Qui è iniziato il mio viaggio con una nuova mentalità, strutturata e orientata agli obiettivi. Ho iniziato a vedere il mio futuro in una prospettiva diversa.
Il secondo invece: ero alle superiori ed era il momento di decidere quale direzione prendere all’università. La mia migliore amica era assolutamente sicura che fossi nata per studiare Medicina e Chirurgia: alla fine ho seguito il suo consiglio, e ora, grazie a lei, ho un background medico che considero una preziosa risorsa per la mia ricerca.
Altrettanto importante è stato il consiglio di mia madre dopo essermi laureata in Medicina: volevo prendere un’altra laurea in Fisica/Cibernetica o in Ingegneria Elettronica/Informatica, ma mi ha incoraggiata a continuare il mio percorso con un Dottorato di Ricerca. Sapeva che volevo diventare una scienziata, e un’altra laurea avrebbe ritardato il raggiungimento del mio obiettivo.
Infine, è stato un amico a incoraggiarmi nella scelta del Dottorato in Biofisica, che era il mio più grande desiderio. Avevo altre opzioni tra cui scegliere per il Dottorato, ma mi disse: “Segui il tuo sogno, indipendentemente dalle altre opportunità che si presentano. Sarai ripagata in futuro, perché potrai essere ciò che vuoi essere”. È grazie a loro che sono qui, con la mia identità di PI multidisciplinare.
Cosa diresti ai giovani che stanno concludendo il Dottorato di Ricerca?
Lasciatevi ispirare e non abbiate paura di fare quell’enorme salto per uscire dalla zona di comfort.
Per un ricercatore è essenziale lavorare in paesi diversi?
Posso parlare solo a livello personale. Per me, paragonandomi a quelli che sono rimasti sempre nello stesso posto dall’inizio della loro carriera, ha fatto un’enorme differenza. Ho trascorso più tempo all’estero che in Italia (quasi 9 anni prima di tornare come borsista Marie Curie). Vivere e lavorare all’estero è una grande opportunità per conoscere le diverse mentalità e organizzazioni della società, oltre alle diverse strutture di gestione del lavoro. Si tratta di un’esperienza che apre gli occhi, che aiuta ad essere più flessibili nell’adattarsi a diversi ambienti e consente di espandere la rete di collaborazioni. Quindi senza dubbio consiglio di trascorrere un periodo all’estero, ma non giudico negativamente coloro che non l’hanno fatto. Si tratta di una scelta personale, di preferenze.
Se potessi migliorare un aspetto della ricerca, quale sceglieresti?
Penso che la mancanza di integrità scientifica sia una questione importante, soprattutto oggi a causa della mentalità “pubblica o muori”, che viene sfruttata dai giornali “predatori” peggiorando ulteriormente le cose. Non sto dicendo che tutti gli scienziati sono carenti di integrità scientifica, niente affatto, ma si tratta di una questione ben nota. Penso, tra gli altri, all’annoso problema relativo alla paternità delle scoperte scientifiche e al riconoscimento dell’autore: a volte vengono sfruttate le idee di un collaboratore senza permesso, altre volte vengono pubblicati studi non rigorosi, falsificando o riformulando i risultati scientifici. Mi sembra che ci sia più competizione che collaborazione, mentre l’unica maratona che noi, in quanto scienziati, dovremmo correre, è quella verso il progresso scientifico e tecnologico, insieme, come una squadra.