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PI Profiles: Liberato Manna

Intervista a Liberato Manna, coordinatore della linea di ricerca “NanoChemistry” di IIT

Nome: Liberato

Cognome: Manna

Luogo di nascita: Barquisimeto (Venezuela)

Ruolo: PI, NanoChemistry

Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Ci occupiamo principalmente della sintesi chimica di nuovi materiali dotati di proprietà che li rendono applicabili in aree come il fotovoltaico, l’immagazzinamento di energia, la produzione di idrogeno e la realizzazione di dispositivi emettitori di luce. Un punto di forza del nostro lavoro è rappresentato dalle collaborazioni con altri gruppi di ricerca, sia all’interno di IIT che all’esterno.

Pensavi di fare questo mestiere da piccolo? Non pensavo di fare esattamente questo lavoro. Mi piacevano le materie scientifiche, tuttavia, più della chimica mi affascinavano materie come la matematica e la fisica. Quando poi alle scuole superiori ho iniziato a studiare chimica in maniera più approfondita, l’ho riscoperta, dal mio personale punto di vista di allora, come una materia più concreta e applicabile al mondo reale, con maggiori opportunità di sbocchi occupazionali.

Se non avessi fatto questo lavoro cosa ti sarebbe piaciuto fare? Se potessi tornare indietro probabilmente sceglierei un percorso di studio in matematica o fisica, perché sono materie che ancora oggi mi piacciono tanto. In realtà ho una passione anche per le materie umanistiche come la filosofia, per quanto questi interessi siano maturati un po’ più tardi.

Quella volta in cui avresti voluto mollare tutto e fare altro: In realtà questo non mi è mai successo. Chiaramente si possono avere dei momenti di sconforto, soprattutto nei periodi in cui non si riescono a ricevere finanziamenti, oppure quando si pensa di seguire una direzione non particolarmente interessante. Tuttavia, non ho mai vissuto esperienze davvero critiche, perché il lavoro che faccio mi piace tantissimo. Invece, quello su cui mi interrogo spesso è se le attività che porto avanti corrispondano davvero al massimo che io possa dare o se invece, al mio stadio della carriera, non sia più utile che io mi impegni maggiormente in ruoli complementari a quelli della pura ricerca e dell’insegnamento, ad esempio in attività volte a creare condizioni che favoriscano i giovani ricercatori e ricercatrici.

Publish or perish”. Quanto influenza le tue giornate e le tue scelte lavorative la pressione della pubblicazione? Non credo di essere mai stato sotto stress da questo punto di vista. Il tutto deriva dal fatto che nel mio gruppo ho sempre avuto persone molto competenti, con tante idee interessanti. Per me la scrittura di un lavoro è un momento edificante, creativo e anche divertente. Naturalmente l’attenzione è tutta rivolta a pubblicare sempre risultati di qualità elevata, ma non ho mai sentito la pressione di dover pubblicare di più di quanto già faccio.

Quando hai capito che stavi andando nel verso giusto? Sicuramente quando sono andato per la prima volta negli Stati Uniti, ormai quasi 25 anni fa. Lì ho notato che le mie idee, nate dal confronto con altre persone, hanno portato a dei risultati interessanti. Così ho capito che avevo un po’ di intuito nel settore della chimica dei materiali. Quando poi sono rientrato in Italia ho continuato in una direzione che poi di fatto si è rivelata proficua.

Qual è il tuo prossimo obiettivo? Un obiettivo è quello di far fruttare i materiali sviluppati in laboratorio in applicazioni per il mondo reale. Ad esempio, abbiamo sviluppato prototipi di dispositivi emettitori di luce che funzionano molto bene, ma anche dei catalizzatori molto efficienti per la produzione di idrogeno. L’altro obiettivo è appunto quello di adoperarmi affinché si creino le condizioni per cui ricercatori e ricercatrici più giovani abbiano lo spazio necessario per crescere ed emergere. Secondo me, a un certo punto della carriera, arriva per tutti il momento in cui si prende atto che bisogna sacrificare qualcosa di sé per far spazio agli altri, perché il lavoro della ricerca è un lavoro di squadra e richiede energie sempre nuove. Spesso, invece, nel nostro ambiente c’è un culto eccessivo della personalità e il rischio è che si presti più attenzione agli scienziati che ai risultati della loro ricerca.

Qual è l’aspetto più difficile del tuo mestiere? Ci sono tanti aspetti difficili: uno è trovare i fondi, perché quello della ricerca è un sistema in cui la competizione è molto forte e i meccanismi di finanziamento attuali sono tali per cui la percentuale di progetti finanziati è bassissima. Un altro aspetto molto importante, per noi che lavoriamo in Italia, è l’attrattività. Il nostro sistema poco attrattivo non ci permette di competere a pieni titoli a livello internazionale. Se non hai capitale umano fortissimo, chiaramente alcune idee non si possono sviluppare. Un altro aspetto è quello di saper gestire le persone e lo scienziato non è necessariamente in grado di svolgere bene questo compito. Se non crei un ambiente collaborativo e stimolante, che parte innanzitutto dal profondo rispetto che devi avere per gli altri e per le loro idee, non riesci a mantenere negli anni un buon gruppo di ricerca.

Il ricercatore senior si deve curare anche di molti aspetti burocratici come condizione necessaria. Apparentemente è un aspetto che difficilmente si concilia con l’attività di ricerca. Come la vivi? IIT secondo me è abbastanza efficiente a livello di burocrazia. Abbiamo degli uffici che funzionano molto bene e quindi le procedure sono più snelle che in altri posti. Ovviamente i problemi sorgono magari quando il nostro Istituto si interfaccia con altri organi esterni. In questi casi ci sono sempre lungaggini, soprattutto nella gestione delle pratiche dei cittadini extracomunitari che ritardano tantissimo l’arrivo di nuove persone.

Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto fa oggi? In Italia? In primo luogo, lo Stato di sicuro. Lì è chiaro che ci sono delle pecche, non solo nell’entità dei finanziamenti, ma anche nella regolarità della loro erogazione. Tuttavia, la ricerca non può essere finanziata solo e sempre con fondi pubblici. Le nostre aziende forse potrebbero fare di più. C’è anche un ulteriore aspetto da puntualizzare: il fenomeno della filantropia, che da noi non esiste quasi per niente. Al contrario, negli Stati Uniti, ma anche in altri posti, mi viene in mente Israele, gli individui che nel corso della loro carriera hanno fatto fortuna donano spesso ingenti somme di denaro alle università in cui hanno studiato.

Si parla abbastanza di scienza al di fuori dei laboratori e del mondo accademico? Secondo me non se ne parla abbastanza. Basti pensare alla campagna elettorale appena conclusasi, durante la quale non si è parlato quasi mai di scienza. Forse perché è ancora molto diffuso lo stereotipo dello scienziato come un individuo che passa il tempo a ricercare cose fuori dal mondo. Sicuramente la percezione positiva della ricerca è aumentata con la recente pandemia di Covid, perché si è visto come i vaccini, prodotti dalla ricerca scientifica, abbiano salvato tantissime vite. Tuttavia, nei dibattiti pubblici alla scienza non viene riservato il posto che secondo me le spetterebbe. Probabilmente gli scienziati hanno anche le loro colpe, perché dovrebbero alzare maggiormente la voce e chiedere di essere interpellati più spesso.

Da chi hai ricevuto l’insegnamento più importante durante il tuo cammino? Questa è una domanda difficile. A pensarci bene, direi che le due persone che davvero mi hanno insegnato tanto sono state il mio relatore della tesi di Laurea, il professor Carmelo Giacovazzo, famoso cristallografo ormai in pensione, e il professor Paul Alivisatos, l’attuale Presidente dell’Università di Chicago. Queste due persone mi hanno dato un’impronta che continua ancora adesso a guidare il mio modo di pensare e di gestire la ricerca. Anche i miei interessi scientifici sono ancora in parte legati a queste due personalità.

Cosa diresti oggi al giovane te che termina il suo dottorato: Di fare esperienze nuove, di cambiare più gruppi nel corso della propria carriera, magari anche aggiustare il tiro sulle direzioni di ricerca. Tutto questo perché più cose si provano, più tecniche si imparano, più contatti si stringono, maggiormente si accrescono le competenze, si allargano i tuoi orizzonti e aumenta la consapevolezza di cosa potrai e vorrai fare. Tutto questo ti preparerà a diventare un leader, se vorrai esserlo.

Lavorare in diversi Paesi è fondamentale per un ricercatore? Assolutamente sì, deve essere una parte integrante. Non solo perché vedi diverse tematiche di ricerca, ma perché conosci diverse culture, diversi modi di pensare e di lavorare. Uno scienziato parla un linguaggio universale, però per poter parlare un linguaggio universale deve anche essere un cittadino del mondo, quindi deve aver visto e viaggiato. Non puoi pensare a 25-30 anni di fermarti in un posto, perché in un certo senso ti fossilizzi. In quella fascia di età si è come delle spugne, si assorbe tantissimo, si impara molto. Secondo me viaggiando si ha maggiore possibilità di apprendere e di capire in maniera più profonda molte cose perché le si confronta con tanti parametri. Le collaborazioni con scienziati da ogni angolo del mondo ti insegnano anche ad approcciare le questioni globali, che prescindono anche dalla ricerca, con un occhio meno campanilistico e più attento alle esigenze di nazioni, comunità e culture diverse dalla tua.

Puoi migliorare un aspetto della ricerca in generale. Quale scegli? Sicuramente cambierei i meccanismi con cui vengono erogati i finanziamenti. Al momento questi meccanismi richiedono un enorme investimento di tempo e di risorse, non solo per chi scrive le proposte di finanziamento, ma anche per chi le deve valutare. Per essere più chiari: un sistema in cui solo il 5% delle domande presentate (a volte anche meno dell’1%) può essere finanziato non è efficiente né giusto, perché si sa benissimo che almeno il 20-25% delle proposte sono ottime e sicuramente il 10-15% sono davvero eccellenti. Ci si chiede poi in quale misura quelle pochissime domande che passano vengano davvero accolte per il contenuto scientifico e non perché magari provengono da uno o più scienziati già molto famosi, il che, si è visto ampiamente, condiziona non poco il giudizio dei valutatori.

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