Il digitale e la tecnologia a servizio dell’istruzione, del lavoro, della giustizia e della salute per tenere unita l’Italia
Teledidattica, telelavoro: la pandemia sta cambiando il volto del lavoro e delle scuole in Italia, costringendo il Paese a uno sforzo tecnologico velocissimo a cui, forse, non tutti erano pronti. L’emergenza Coronavirus ha abbattuto le resistenze dei più scettici del digitale e dell’innovazione, in poche ore centinaia di migliaia di ragazzi studenti e lavoratori si sono ritrovati in rete davanti un tablet, un computer o un cellulare provando a riorganizzare una nuova quotidianità. L’ora zero è iniziata nel momento del “lockdown”, quando il Premier Giuseppe Conte ha annunciato l’Italia “tutta zona rossa” definendo così un nuovo inizio per tutti, con il fondamentale apporto della tecnologia nelle nostre vite.
Abbiamo chiesto al Direttore dell’Ufficio Information and Communication Technology di IIT, Stefano Bencetti, cosa fa IIT e come e se secondo lui la Covid-19 potrà cambiare il volto della digitalizzazione in Italia.
Ciao Stefano, come stai innanzitutto e come sta la tua famiglia?
Bene, fortunatamente stiamo tutti bene, rispettiamo molto seriamente l’invito #IoRestoaCasa. Io continuo a lavorare on line connesso con i colleghi, mia moglie, che insegna matematica, passa la giornata a preparare videolezioni per i suoi alunni e a coordinarsi con gli altri docenti, mio figlio segue le lezioni online della sua classe di liceo e mia figlia, studentessa universitaria fuori sede, è fortunatamente riuscita a rientrare a casa prima che iniziasse il lockdwon e sta preparando un esame. Ci riteniamo superfortunati ovviamente e il nostro pensiero è continuamente a chi è in prima linea, a chi combatte l’invisibile per salvare vite umane, in famiglia riflettiamo continuamente su questo aspetto.
IIT ha messo in atto da diverso tempo misure di telelavoro per migliorare la cosiddetta work-life balance del personale. Tutto questo è stato possibile grazie alla tecnologia. Ci racconti cosa è necessario organizzare dal punto di vista tecnologico per permettere a un istituto come IIT di continuare le sue attività scientifiche e amministrative?
L’Istituto Italiano di Tecnologia fornisce al personale servizi informatici, sia in cloud che in intranet – vale a dire servizi che sono raggiungibili solo se si è collegati alla rete dati della sede di Genova. Per i servizi cloud non è richiesto nessun tipo di accorgimento specifico, al di là delle credenziali personali di accesso, e la raggiungibilità è garantita da ogni postazione collegata a Internet, di conseguenza anche da casa. Mi viene in mente la piattaforma Office 365 che mette a disposizione online le più comuni applicazioni da ufficio e che comprende la nuova piattaforma di collaboration, Microsoft Teams. Quest’ultima, per esempio, oltre a fornire funzionalità di videoconferenza e chat, fornisce un ambiente per la condivisione e la revisione di documenti che chiaramente può essere utilizzata anche in molteplici setup di laboratorio per le attività di ricerca. Per i servizi intranet, quelli invece presenti solo sulla sede di Genova, abbiamo messo a disposizione – fin dalla nascita dei laboratori IIT – il servizio VPN (Virtual Private Network), che consente di raggiungere anche da fuori rete IIT i servizi informatici interni, i server e tutti gli strumenti IIT creando un canale di collegamento dedicato e cifrato. Questa funzionalità è sempre stata richiesta come una vera e propria esigenza, sia per la notevole mobilità dei nostri ricercatori che avendo molte collaborazioni internazionali sono soliti a soventi spostamenti, sia per la rete dei centri di ricerca IIT distribuiti in tutto il territorio nazionale, e che necessitano di questa modalità di connessione per raggiungere la rete di Genova. Tutti i nostri dipendenti sono ovviamente dotati di laptop, non abbiamo computer desktop.
Quelle del lavoro agile e della teledidattica sono realtà possibili in IIT e in altre realtà del territorio ligure e nazionale, ma non in tutte. Quali sono gli aspetti in cui il Paese secondo te è ancora carente e in cosa sarà necessario investire per farci trovare più pronti durante una prossima, speriamo remota, emergenza?
Se c’è un aspetto positivo di questa pandemia lo individuo nello stimolo che tutti gli italiani hanno ricevuto per aumentare il proprio livello di digitalizzazione facendo “di necessità virtù”. L’Italia si colloca come fanalino di coda su tutte le ultime classifiche mondiali ed europee che riguardano il livello di maturità digitale di un paese. Ultima per performance digitali, per esempio, nel ranking stilato dalla Commissione Europea del 2019 che vede il nostro Paese a fondo classifica per l’attuazione dell’agenda digitale, nei vari settori di connettività, capitale umano, uso dei servizi internet, tecnologie digitali nel business e uso dei servizi pubblici digitali (cfr. DESI 2019 – The Digital Economy and Society Index https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi). Abbiamo un problema di infrastrutture di connettività a larga banda, e in particolare di percentuale di territorio coperto, ma anche un problema di cultura digitale della popolazione, un problema di numero di laureati in Scienze dell’Informazione (Informatica, ma a me piace ancora chiamarla alla vecchia maniera perché aiuta a sottolineare che è una disciplina universitaria!) e l’offerta di lavoro in informatica non è coperta da un numero sufficiente di risorse. Occorrerebbe realizzare un circolo virtuoso per cui tutti questi aspetti negativi possano prendere un trend positivo, e speriamo magari che questa emergenza sia l’occasione giusta. Oggi è confortante il fatto che da italiani stiamo reagendo molto bene: dalle scuole alle aziende, anche tutti quelli che prima erano incredibilmente scettici nei confronti del digitale si sono dovuti ricredere correndo ai ripari, spinti certamente dal forte spirito di rialzarsi tipico del Paese e dall’emergenza dirompente; per quello che può essere la mia visibilità limitata alle situazioni che mi circondano, i risultati ci sono. Certamente sentiamo più pronunciata quella mancanza di maturità digitale di cui parlavo prima, ognuno sta tentando di colmare il gap digitale con il massimo impegno e con i mezzi che possiede, lo sforzo è lodevole, non vorrei sembrare ne banale ne offensivo, ma non ci possiamo aspettare che tutto funzioni come “un orologio svizzero”, per cui ad esempio se pensiamo ai nostri ragazzi che da casa in questi giorni seguono le lezioni online, può capitare che all’interno di una stessa classe vengano usate piattaforme diverse, ad esempio Google Hangouts, Microsoft Teams e Skype a seconda della lezione e dell’insegnante. Questo perché le iniziative nascono dalla capacità delle singole entità educative di essere riuscite ad organizzarsi nonostante le esigue risorse che hanno a disposizione. Non solo, anche nei casi migliori di comunità scolastiche più virtuose, esiste effettivamente un problema di digitalizzazione delle famiglie. In una scuola inclusiva, quella analogica, si soffre oggi la possibilità di “arrivare” a tutti i ragazzi, ma non è per nulla scontato invece che nella scuola digitale, in questi giorni, tutti dispongano dei mezzi per seguire una videolezione e non è detto quindi che gli insegnanti riescano ad erogare le lezioni a tutti. Sicuramente ci sono famiglie che in questa fase rischiano di rimanere indietro e questo è un aspetto molto grave. Sarà necessario fare sistema, raccogliere le singole iniziative ottime e aumentare la maturità digitale dell’intero Paese.
Qualcuno teme che la tecnologia possa sovrastare il capitale umano e mettere da parte quelle realtà non pronte ad iniziative digitali. Secondo te, è possibile una coesistenza e che soluzioni si possono suggerire?
Io immagino che una coesistenza sia possibile, cercando di gestire la tecnologia e non farci sopraffare. Al fianco del prezioso apporto della tecnologia, della capacità di abilitare a nuove esperienze, un aspetto “nuovo” è il sovraccarico enorme cui siamo sottoposti adesso, un continuo bombardamento digitale che può addirittura stancare, con una quantità di stimoli nettamente superiore a prima: la tecnologia ci sta creando molte buone possibilità e al contempo dovremmo saperla governare per ritagliare uno spazio anche non digitale nelle nostre vite.
In Europa e nel nostro paese è in atto un progetto digitale che sta portando risultati, ma all’Italia occorrerebbe un cambio di passo per scalare le classifiche che citavo prima. E’ certamente necessario aumentare gli investimenti, aumentare la consapevolezza e le competenze di digitalizzazione del cittadino, ma serve garantire un’azione forte e chiara, garantire forse una minore autonomia per ottenere una minore dispersione di investimenti e per realizzare un modello paese digitale più omogeneo e interoperabile; nella mia esperienza quando si ha a che fare con progetti che riguardano “persone, processi, prodotti tecnologici” maggiore è l’autonomia nello sviluppo dei progetti e più alta è la probabilità di creare dei silos che non interoperano e non si integrano tra di loro e con il sistema circostante. Come spesso accade, l’introduzione massiccia di nuove tecnologie in qualsiasi campo vede inizialmente una specie di assalto alla diligenza per cercare, da parte di alcuni di accaparrarsi il libero mercato, o da parte di altri di crearsi il proprio abito su misura. Un esempio potrebbe essere il registro elettronico nelle scuole, dove alla base c’è una iniziativa che risponde ad una esigenza di digitalizzazione, ma gli esiti non sono quelli sperati. E’ possibile infatti avere a casa 3 figli con 3 registri creati da 3 editori differenti perché ogni scuola ne ha potuto scegliere uno diverso. Per fare un altro esempio, ogni ASL dispone di cartelle cliniche che non si parlano tra loro. In Italia bisognerebbe seguire invece il modello della fatturazione elettronica, un esempio virtuoso dove centralmente si è deciso il processo, il workflow e i vincoli nei formati tecnologici, poi sulla base di questo si è sviluppato anche un mercato.