Intervista a Nicola Tirelli, PI della linea di ricerca Polymers and Biomaterials di IIT
Come ha inizio il tuo percorso professionale?
Accademicamente, nasco come chimico esperto nei polimeri. Questo è l’ambito nel quale ho mosso i primi passi da ricercatore, occupandomi di sintesi nuove macromolecole, della loro caratterizzazione e del loro uso per produrre nuovi materiali organici; le ‘plastiche’, le fibre tessili artificiali, gli schermi a cristalli liquidi, gli pneumatici, molti dei componenti delle batterie etc sono tutti esempi di materiali organici a base polimerica. Questo background ancora oggi influenza il mio lavoro: continuo a occuparmi di molecole per produrre dei materiali.
Nei primi periodi, trascorsi in parte al Politecnico di Zurigo, ho studiato le proprietà elettro ottiche di materiali che, per esempio, mutavano le loro caratteristiche per esposizione alla luce (materiali fotocromici), o di cambiare il colore della luce che li attraversava (duplicazione di frequenza). Ho poi orientato i miei interessi verso il settore bio; la pietra angolare è sempre l’ingegneria molecolare di materiali, ma in questo caso per applicazioni biomediche, da un punto di vista regolatorio spesso direttamente catalogabili come farmaceutiche. Nel mondo anglosassone, con intento a volte un po’ derogatorio, queste attività vengono spesso definite come formulation science, la scienza delle formulazioni: il ‘mescolare’ diversi componenti per permettere ad un principio attivo di ottenere un desiderato effetto medico. L’esempio più semplice di formulazione è la produzione di una forma di dosaggio solido per rilascio oro-gastro-intestinale, ovvero una pastiglia, una compressa, una pillola.
Realizzare una “pastiglia” con importanti valenze terapeutiche non mi sembra banale
Sì, se dovessimo pensare di disegnare ex novo anche una formulazione così comune, c’è un background tutt’altro che semplice: la comprensione profonda di questi processi richiede ottime conoscenze sia scientifiche che ingegneristiche. Le richieste industriali e soprattutto regolatorie di standardizzazione, riproducibilità e automazione – ossia di garantire sempre la stessa performance di un presidio medico – si sono però spesso accompagnate a forti perdite di comprensione scientifica. Insomma spesso si vede la formulation science un po’ come il calderone dello stregone: l’incantesimo riesce sempre, basta riprodurlo anche senza capirlo. Invece le linee guida di questa disciplina sono eminentemente razionali, e in primis cerano di accordare le proprietà di una formulazione con la sua prevista modalità di utilizzo, e possibilmente con le esigenze individuali del paziente (la cosiddetta medicina personalizzata). Faccio un esempio: tornando alla ‘pastiglia’, una scelta opportuna dei componenti e del tipo di processo manifatturiero può far liberare un principio attivo primariamente nell’intestino, nello stomaco, o nella bocca. Uso pratico? il rilascio non selettivo di un farmaco anti-infiammatorio non steroideo (un FANS, come l’ibuprofene o l’aspirina) comporta un rischio di ulcere gastriche, che si azzera quando invece il farmaco è liberato selettivamente nell’intestino. Un secondo esempio: sempre nella ‘pastiglia’, alcuni componenti aiutano il processo di preparazione; tra questi, il magnesio sterato che non ha alcun valore terapeutico ma garantisce alla pastiglia la lubrificazione necessaria per non fare inceppare la pressa che la produce (la pastigliatrice). Altri esempi di ‘ingegnerizzazione della pastiglia’ includono la gestione del sapore (copertura di toni amari) o della velocità di liberazione del farmaco.
Quindi potremmo definire la tua attività come ingegneria del farmaco?
Sicuramente. Il percorso inizia dall’analisi del problema medico: qual è l’ambiente biologico del quale ci stiamo occupando? come pensiamo di influenzarlo con la nostra forma farmaceutica? come quest’ultima possa essere somministrata? Poi traduciamo questi concetti in termini molecolari: sintesi, caratterizzazione e processo di materiali, che nella nostra attività sono nanometrici e composti da molecole molto grandi (appunto, i polimeri).
L’emergenza COVID ha focalizzato l’attenzione delle industrie farmaceutiche, degli scienziati, delle industrie farmaceutiche, della gente sui vaccini. TI stai occupando con il tuo gruppo di lavoro di questo tema?
Abbiamo in programma due progetti nell’ambito dei vaccini, ma è importante dire che questi sono contributi di scienza fondamentale e non direttamente applicativi. Come è noto, un vaccino stimola il nostro sistema immunitario (p.es. per la produzione di anticorpi) attraverso una reazione infiammatoria, contro un nemico fittizio quale un virus inertizzato, o una nanoparticella; insomma non un patogeno pericoloso. E’ lo stesso da più di due secoli: la nostra reazione al poco pericoloso vaiolo vaccino (il capostipite, da cui deriva la parola stessa vaccino) permetteva l’immunizzazione al mortale vaiolo umano. Nei vaccini classici (p.es. quello anti-influenzale) degli adiuvanti sono utilizzati per rinforzare e controllare l’intensità dell’attivazione infiammatoria all’antigene (la caratteristica molecolare del virus contro cui produciamo anticorpi). Nei vaccini a RNA – li conosciamo tutti ormai: Moderna e Pfizer – è l’RNA stesso a funzionare sia da antigene che da adiuvante all’interno delle nostre cellule. Ma anche se un agente è poco pericoloso di per sé (è il caso dell’RNA), una risposta infiammatoria incontrollata può creare notevoli problemi; questo è probabilmente alla base degli effetti secondari a volte riscontrabili nei vaccini. Sarebbe opportuno, e non solo per i vaccini contro il COVID, capire meglio qual è il grado d’infiammazione necessario e sufficiente per stimolare la risposta immunitaria, e comprendere come evitare di superarlo, per esempio inserendo “interruttori di sicurezza” onde evitare reazioni parossistiche. In sintesi, lavoreremo affinché vi sia reazione immunitaria ma sotto controllo.
In IIT sei anche Associated Director for Education, un impegno importante dal punto vista culturale e formativo
L’attività formativa di IIT è primariamente centrata sullo strumento del dottorato di ricerca; qui due modalità vanno distinte. La prima è la formazione verticale nel proprio dominio di ricerca; l’altra riguarda campi trasversali alla propria competenza, ma che permettono di mantenere il dottorando in equilibrio con un sistema di ricerca e produzione che cambia rapidamente. Nel primo caso, il nostro compito (come supervisori di progetto, ma anche come istituzione) è anche di migliorare le conoscenze specifiche in senso quantitativo, ma soprattutto di colmare un gap qualitativo e in ultima analisi filosofico: come si formula una domanda scientifica? Come si struttura una risposta che sia scientificamente corretta? Non bisogna inventarsi niente, ci sono canoni prefissati; in buona sostanza, tutte le nostre risposte seguono le regole del sillogismo aristotelico. Purtroppo, la loro traduzione pratica non è (più) insegnata nel corso di una formazione universitaria standard, ed è demandato al dottorato di sviluppare nella pratica, per esempio, come una domanda complessa possa essere trasformata nel prodotto di domande più semplici, come queste debbano essere basate su variabili ortogonali (che non si influenzino l’un l’altra), come si disegni un esperimento, come si stabiliscano i controlli. Insomma, il dottorato è in primis una palestra per il miglioramento di queste capacità, indirizzate verso la soluzione di problemi, ponendo domande e organizzando risposte in maniera rigorosamente filosofica. Questa prospettiva però deve essere supportata da una formazione trasversale, che permetta di inserirsi nel mondo del lavoro senza riconversioni potenzialmente onerose e dolorose. Queste infatti hanno un costo (economico e di tempo) sia per il ricercatore che per il suo futuro datore di lavoro.
Il dottorato, il PhD, si può concretizzare in nuove e più proficue ipotesi di sviluppo coerenti con una visione innovativa della ricerca?
Sì, penso al dottorato industriale che ha spesso avuto attenzione da parte del Ministero della Università e Ricerca Scientifica. La mia valutazione personale, però è che questo tipo di dottorato non possa essere gestito seguendo le stesse regole di un PhD accademico. Una struttura didattica ancora basata su crediti, con un management solo accademico (collegio dei docenti), e una valutazione basata su pubblicazioni e risultati scientifici, è ben finalizzata alla carriera accademica, ma difficilmente ha la flessibilità per consentire lo sviluppo di competenze veramente rilevanti in un contesto industriale. Insomma, un dottorando industriale dovrebbe poter entrare in un contesto produttivo avanzato senza bisogno di riconversione; e invece il rischio è di formare personale ancora di tipo accademico, penalizzandolo con progetti di minore caratura scientifica. Una situazione di lose-lose invece che win-win.
Quali potrebbero essere le materie da sviluppare in questo dottorato?
Nel corso di un dottorato industriale, approfondire elementi di scienza fondamentale non guasta, ma si dovrebbero approfondire i problemi della manifattura, apprendere le regole del controllo di qualità, la differenza tra product development (più innovativo e potenzialmente più remunerativo, ma anche più costoso e con orizzonti commerciali più lontani) e application development, sviluppare una forma mentis basata sulla produzione di big data e sugli strumenti per gestirli. Per concretizzare questa ed altre idee sui PhD sarebbe importante organizzare anche una scuola dottorale in IIT. Questa attività ci permetterebbe di costruire un percorso formativo modulato sulla nostra missione, che dovrebbe far comprendere il valore, nel nostro Paese, di un’alta formazione indirizzata verso le applicazioni.