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Social media e comportamenti in rete

Intervista a Walter Quattrociocchi, Professore di Informatica alla Sapienza Università di Roma

Il nome di Walter Quattrociocchi lo incontrai per la prima volta nel 2016 grazie a un articolo pubblicato da Le Scienze che raccontava alcuni recenti risultati delle sue ricerche sui social media, in particolare il processo di diffusione della disinformazione in rete, dimostrando che gli utenti si strutturano intorno a delle “echo chambers”, ovvero gruppi che tendono a selezionare e condividere contenuti relativi a uno specifico genere di notizia, a conferma delle loro visioni di mondo, secondo il cosiddetto pregiudizio della conferma (confirmation bias). Quattrociocchi, 40 anni, è oggi Professore di Informatica alla Sapienza Università di Roma dove dirige il Center for Data Science and Complexity for Society e la sua attività di ricerca si focalizza sulla analisi data-driven dei sistemi complessi. Il suo gruppo di ricerca ha una pagina Facebook in cui le notizie di studi e incontri scientifici appaiono in mezzo a consigli di cucina, con ricette di melanzane alla parmigiana e pasta alla carbonara – un connubio apparentemente bizzarro, ma che molto dice delle nostre reazioni di fronte ai contenuti che ci aspettiamo di trovare in un determinato contenitore. I suoi lavori sulla diffusione delle informazioni sono serviti per informare il Global Risk Report del World Economic Forum e usati da alti enti normativi e istituzionali. Di recente ha fatto parte di diversi tavoli tecnici internazionali e nazionali, tra cui il gruppo di esperti su Hate Speech e coordinatore del gruppo impatto sociale ed economico della Task Force Dati COVID voluta dal Ministero dell’Innovazione. Regolarmente invitato come keynote speaker a conferenze e istituzioni internazionali, lo abbiamo contattato per un confronto sui social media, alcune intersezioni con il mondo politico e i risultati degli ultimi suoi studi sui comportamenti in rete.

 

Il Presidente Macron in una sua recente intervista identificava i social media come un elemento di “degerarchizzazione di ogni discorso” e quindi di contestazione di qualsiasi autorità, che è alla base di una struttura sociale come la democrazia. Studiare i social media, quindi, significa studiare lo stato di benessere della nostra società?

Il tema del rapporto tra social media e democrazia era molto caldo già nel 2018, quando nel newsroom di Facebook si faceva menzione di un nostro studio proprio per parlare dell’effetto delle “echo chamber” sulla democrazia. Non sono affatto convinto che una qualsiasi società si fondi sull’autorità. Ritengo che l’autorevolezza sia un qualcosa che concede l’interlocutore, non è un titolo. Però posso dire che all’interno della nostra società i social media hanno reso incontrollabile l’ecosistema informativo e ciò ha causato non pochi problemi. Molte sono state le interpretazioni sul fenomeno, ma spesso senza avere gli strumenti e le competenze adeguate. Lo studio dei social media significa studiare il cambiamento più grosso che ha attraversato la nostra società nell’ultimo millennio o più. Quello che i nostri studi hanno messo in evidenza è che le persone, noi, cerchiamo e interagiamo con le informazioni che meglio aderiscono alla nostra visione del mondo, ignoriamo informazioni a contrasto e tendiamo a creare tribù intorno a narrative condivise.

Per il mondo dell’informazione e della comunicazione si usa il termine “disintermediazione”, ovvero mancanza di quel media tradizionale che agisce da verifica sull’informazione secondo regole professionali ben precise. Oggi si parla anche di infodemia, ovvero di diffusione di disinformazione al pari di una pandemia. In un vostro lavoro recente pubblicato su Scientific Reports avete studiato cosa è accaduto su alcune piattaforme social riguardo a COVID19 nel periodo iniziale dell’emergenza, dal 1 gennaio al 14 febbraio, puoi raccontare cosa avete osservato?

L’ecosistema informativo è fuori controllo, perché è fortemente entropico. L’accesso alle informazioni è disintermediato, ma non solo, i social media agiscono come dei gatekeeper, proprio perché sfrondano nel mare magnum dell’informazione quello che per noi, utenti dei social media, è più congeniale. L’Infodemia, secondo l’OMS è proprio la sovrabbondanza di informazioni durante una pandemia. Abbiamo tutti visto come è stato faticoso capire che cosa stesse accadendo soprattutto nelle prime fasi della COVID-19. Informazioni incerte, rimbalzate da diverse testate giornalistiche, difficoltà a capire quali fossero gli esperti con cui fosse importante e più appropriato interloquire. Per il nostro gruppo di ricerca è stata la tempesta perfetta per studiare la diffusione delle informazioni. Uno studio del 2018 affermava che le fake news andavano più veloci delle informazioni vere; un’affermazione che non ci convinceva. Quello che abbiamo trovato, infatti, è che sia le informazioni affidabili sia quelle non affidabili circolano allo stesso modo anche su piattaforme diverse. Altra domanda a cui abbiamo provato a rispondere è se i modelli pandemici fossero una buona approssimazione di quelli infodemici e la risposta è stata no. La spiegazione di ciò è semplice: l’informazione te la scegli, il virus invece non offre questa opzione di scelta. E’ una piccola differenza che cambia completamente le dinamiche dei due processi (e le possibili soluzioni).

Nel vostro lavoro suggerite, inoltre, che gli stessi algoritmi scelti dai social media per l’interazione con gli utenti è alla base della maggiore diffusione di certi tipi di contenuti non verificati. Vi è quindi un “peccato originale” che dovremmo sempre considerare quando si usano i social media?

Il punto centrale della nostra storia con i social media è il business model da loro introdotto. Le piattaforme nascono per vendere pubblicità ad utenti che passano tempo su di esse. L’obiettivo di questi strumenti, quindi, è quello di massimizzare il tempo di persistenza sui canali e di vendere pubblicità nella maniera più dettagliata possibile – anche se le tecniche di targeting verso l’utente spesso si dimostrano essere ancora molto grossolane. Nessuno era in grado di prevedere che queste piattaforme si sarebbero trasformate nel principale viatico per fruire e condividere informazioni, ma sappiamo tutti come è andata. Non è un caso che l’immagine con più like su Instagram sia un uovo e non una citazione di un qualche scrittore.

Avete pubblicato su PNAS un lavoro che dimostra che Facebook e Twitter sono i canali in cui si formano maggiormente le polarizzazioni, le cosiddette echo chambers, per cui si rimane intrappolati all’interno di specifici gruppi di persone con una stessa visione del mondo, ignorando così informazioni contrastanti con l’opinione condivisa. Perché è un dato che dovremmo considerare come importante?

Ho partecipato ai lavori di alcune commissioni governative dove ho avuto modo di confrontarmi con altre persone sul tema delle “echo chamber”, vedendo che generava discussioni; qualcuno le considerava “superate”, qualcun altro, soprattutto nel mondo della sociologia, si appassionava. Allora per trovare una risposta più convincente, io e il mio gruppo abbiamo costruito, insieme ad altri colleghi, una batteria di dati per fare analisi approfondite e confrontare l’effetto “echo chamber” su varie piattaforme. Il risultato è stato di conferma delle nostre ipotesi. Anzi, la cosa interessante che non ci aspettavamo, è che sembra che sulle piattaforme dove si fa largo uso di algoritmi di feed, ovvero algoritmi che nel proporci i contenuti tendono a prediligere cose in linea con le abitudini nostre e dei nostri amici, questa polarizzazione sia maggiore. Le piattaforme, cioè, influenzano i nostri comportamenti e la nostra dieta informativa.

La polarizzazione è un elemento che troviamo anche nel mondo politico, determinando la nascita di nuovi gruppi estremisti e rendendo il meccanismo della contrapposizione forte tra il nuovo e l’establishment la base per i movimenti populisti. I social media possono avere contribuito all’emergere di tale polarizzazione nella vita politica e culturale o sono solo lo specchio di quanto sta accadendo nella nostra società?

Credo che sia lo specchio di cosa sta succedendo nella società. I tempi sono più veloci e l’inerzia fa si che cose nuove fatichino a prendere piede. I social rendono ancora più palese questa discrepanza. Facebook e Twitter erano il bene quando c’è stata la primavera araba, il male quando c’è stato il voto a favore di Brexit e di Trump. Sono tornati ad essere il bene quando Trump è stato bannato. Insomma, richiamando un tema a me molto caro, interpretiamo le informazioni come ci piace. L’importante è che supportino la nostra narrativa. Questo processo rende tutto molto più volatile e spesso la politica fa fatica ad inseguire i repentini mutamenti di un sistema sociale cosi vivace e caotico.

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