Intervista ad Athanassia Athanassiou, PI della linea di ricerca Smart Materials di IIT
Athanassia Athanassiou, per tutti Nassia, è tra le prime ricercatrici che hanno fatto parte dell’IIT di Genova. Ci racconti com’era la Fondazione ai suoi esordi?
Giungo da Lecce con tutto il mio gruppo che si occupava di smart materials nel 2012; con queste persone lavoravo già da due anni nella città pugliese e quando ci fu l’opportunità di venire a Genova per iniziare una sfida ancora più importante di quella che stavamo già affrontando, l’ho accettata con un gruppo di colleghi, eravamo in sei oggi siamo quasi sessanta. Avevo compreso in quel momento il segnale che giungeva dall’interesse delle industrie per il nostro lavoro e dal capoluogo ligure potevamo creare rapidamente una rete di contatti estremamente importanti. Prima di trasferirmi definitivamente da Lecce avevo però lavorato alla messa a punto dei laboratori dell’IIT di Morego, e quindi posso dire di aver partecipato ai primi passi della Fondazione.
Quale era la situazione dei tuoi nuovi laboratori in IIT?
Non c’era niente e abbiamo dovuto attrezzarci da zero. Se da una parte questa condizione creava qualche preoccupazione, dall’altra offriva l’opportunità di costruire i laboratori dei mei sogni e iniziare così un’entusiasmante percorso. Ho un bellissimo ricordo di quel periodo dove, oltre alla messa a punto attrezzature tecnologiche, lavoravo alla selezione delle persone che sarebbero venute a lavorare con noi. Finalmente potevo vivere nel clima internazionale del processo organizzativo che stavamo attuando. La lingua più utilizzata era l’inglese, una peculiarità importante quando si vogliono coinvolgere ricercatori con esperienze sovranazionali. Nel mio passato di ricercatrice in Italia era stato difficile comunicare a causa dei problemi di lingua. Nei grandi centri di ricerca della Penisola la lingua utilizzata era l’italiano ed io, che venivo dalla Grecia prima e poi dall’università di Manchester, facevo una discreta fatica a leggere bandi e progetti e interloquire con i colleghi con il mio italiano, allora debole. In IIT si concretizzava l’idea di un centro di ricerca internazionale non solo per l’utilizzo della lingua ma anche per uno stile nelle relazioni professionali molto aperto, trasparente. Un sistema nel quale tutti potevano avere accesso, tutti potevano applicare.
Superata la fase pionieristica iniziale ti puoi concentrare sui tuoi studi, come cambia e cresce il raggio d’azione delle tue ricerche?
Il mio raggio d’azione a Genova cambia molto. Fino ad allora i miei studi erano circoscritti ai materiali compositi, funzionalizzati. In IIT si apre per me un nuovo orizzonte scientifico, grazie ai rapporti con le industrie che mi hanno permesso d’intercettare bisogni reali ai quali potevo dare risposta. Si crea con i rappresentanti delle imprese un circolo virtuoso. Loro mi ponevano dei quesiti e io cercavo di rispondere attraverso la ricerca di base. Sono entrata così, con il mio gruppo di lavoro, in contatto con il mercato, una finestra che ti obbliga a superare l’idea della ricerca realizzata per il ristretto novero degli esperti e degli studiosi per renderla usufruibile, invece, per un gran numero di persone. Questa visione è stata un sostegno straordinario per il nostro cammino in IIT.
La connessione con il tuo lavoro e il trasferimento tecnologico di IIT mi sembra centrale in questo processo. È cosi?
Sì, è proprio così. Posso contare su di una storica collaborazione con i colleghi della Direzione Trasferimento Tecnologico. Il lavoro con l’industria che vede da sempre l’impegno del TT mi ha insegnato molto, per esempio, per quanto riguarda l’ingegneria dei materiali; quindi non solo come li studiamo ma come poi li sviluppiamo. La messa a punto di prototipi che sono successivamente la base per la produzione industriale è un momento centrale del nostro lavoro che è orientato al trasferimento tecnologico fin dall’intuizione di un primo nuovo campo d’azione.
Tra i tanti progetti che hai portato a termine quale ti sta più a cuore?
Non ve ne è uno in particolare ma tutti sono per me un punto d’arrivo che crea grande soddisfazione. Devo dire che i progetti più recenti sono quelli che mi coinvolgono di più perché rappresentano una nuova sfida che è sempre elettrizzante e, nel caso dei nuovi materiali, ti offre anche la possibilità di affrontare temi fondamentali per la nostra comune convivenza. Il lavoro di questi anni sui materiali mi ha evidenziato senza ombra di dubbio quanto sia stata dannosa, e lo sia ancora, l’idea dell’usa e getta per tutta quella massa di sostanze, prodotti e congegni compagni inseparabili della nostra esistenza. Tutti i frutti della natura alla fine della loro vita si decompongono e si dispongono per darci un altro aiuto sotto forme diverse. Il processo circolare della natura va applicato anche sui materiali che l’uomo ha sviluppato. Nella nostra concezione di scarso respiro non abbiamo capito, fino ad oggi, quanto i segni dell’inquinamento sono drammaticamente palpabili. Per questo anche i materiali realizzati da noi, dai più semplici ai più complessi, devono essere, alla fine della loro vita, riutilizzati o smontati per dar vita a nuovi prodotti e in ogni caso rientrare sul mercato. Per questo motivo nell’ultimo decennio ho lavorato molto sia su ricerche avanzate sia su materiali intelligenti sostenibili. Questi sono i progetti che mi appassionano di più. Per esempio, ora abbiamo in corso un importante programma di lavoro con il Poligrafico dello Stato per realizzare tutti i documenti di sicurezza di questo ente in materiali che alla fine del loro utilizzo possono essere compostabili. Sono documentazioni molto importanti che contengono informazioni sensibili che non possono, a fine utilizzo, finire in discarica.
Tra le tante preoccupazioni che ci attanagliano per quanto riguarda l’ambiente, lo stato dei mari è tra le più rilevanti. Tu e il tuo gruppo di ricercatori avete individuato delle tecnologie in grado di ridurre l’inquinamento delle acque. Come stanno procedendo queste attività?
Abbiamo in corso diverse attività a favore della riduzione dell’inquinamento delle acque, alcune tra queste riguardano l’individuazione e lo smaltimento degli idrocarburi e dei materiali pesanti, gli studi per la trasformazione dell’acqua salata in acqua potabile e poi il lavoro di ricerca sulla fauna marina, per offrire delle soluzioni sostenibili per il miglioramento della loro vita nel mare. Non abbiamo ancora ottenuto da tutto questo lavoro degli sviluppi industriali su larga scala ma, per esempio, nell’industria che ripulisce le acque di processo dagli inquinanti, trova nelle nostre realizzazioni un’applicazione pratica. Gli studi per ridurre l’inquinamento dei mari con per l’individuazione di nuove tecnologie all’avanguardia per il miglioramento della qualità delle acque sono un obiettivo strategico nel nostro lavoro di ricerca. Peraltro, non dobbiamo mancare i fondi del PNRR che ci offrono una grande opportunità per il finanziamento di questi studi. Spero nel prossimo quinquennio con i miei ricercatori di offrire nuove indicazioni tecnologiche per ridurre l’inquinamento dei mari.
Anche guardando queste prospettive, quale sarà il futuro del tuo lavoro e anche quello di IIT, valutando la trasversalità delle tue ricerche nei processi di sviluppo della Fondazione. Oltre ciò, la presa di coscienza del problema ambientale riguarda sicuramente oltre la scienza anche la politica. Cosa ne pensi?
Credo che noi ricercatori dobbiamo modificare l’abituale pensiero in questo ambito che vede il nostro procedere separato da quello della politica. Nel caso dell’inquinamento globale, e non solo, se la ricerca è pronta con proposte e soluzioni sensate, la politica le adotta. Se quest’ultima è lasciata sola a proporre interventi fondati solo sull’intensificazione di regole, spesso irreali, creiamo ulteriori ritardi e danni per interventi assolutamente urgenti. Se la scienza non si confronta con la politica c’è il rischio che quest’ultima intraprenda strade poco praticabili. Un esempio è quello del sostegno alla diffusione delle auto elettriche, una decisione che non si fonda su una valutazione realistica delle fonti di approvvigionamento e, anche in questo caso, non valuta con le dovute preoccupazioni il problema dello smaltimento del propellente, le batterie. In questo caso, prima la ricerca dovrebbe proporre batterie realizzate e smaltite in maniera sostenibile e poi la politica dovrebbe lanciare la campagna per l’auto elettrica. Questo è solo un esempio, forse il più eclatante. Ecco perché non credo che si possa parlare di un problema politico quando si cita il problema ambientale globale. È un tema che deve vedere la ricerca nel ruolo del protagonista.
Non è un caso che con Giorgio Metta e un gruppo formato da quaranta Principal Investigator stiamo lavorando assiduamente sul tema delle ricerche costruite sulla sostenibilità che diano vita ad opzioni pratiche, semplici ma vitali per il nostro futuro e per quello del pianeta.
Nassia, il tuo impegno e quello dell’IIT è rilevante non solo per l’Istituto ma anche per le ricadute positive che potrà avere sul nostro futuro. Ce la faremo?
Sì, ne sono certa, a patto che tutti noi ma anche i giovani ricercatori intraprendiamo questa attività pensando in modo globale e sentendosi coinvolti nell’impresa per migliorare la qualità del nostro pianeta. La ricerca come momento di curiosità personale è una visione superata oggi deve essere un impegno orientato allo sviluppo del bene comune.