Intervista a Michele Tamagnone, coordinatore del Nanophotonic Devices Lab di IIT
Oggi abbiamo la necessità di trasmettere enormi quantità di informazioni, in modo veloce e a grandi distanze. Grazie allo Starting Grant ERC, Michele Tamagnone – primo ricercatore della linea di ricerca Nanophotonic Devices presso il Centro per le Tecnologie Convergenti dell’IIT – sta conducendo il progetto SubNanoOptoDevices, per la realizzazione di nanostrutture basate su materiali bidimensionali. Questo consentirebbe di creare dispositivi miniaturizzati e velocissimi, per aumentare significativamente l’efficacia delle telecomunicazioni.
Il progetto è dedicato allo sviluppo di dispositivi fotonici e optoelettronici miniaturizzati. Cosa sono e come si realizzano?
Parliamo di “low dimensional materials” (materiali con limitato numero di dimensioni), soprattutto bidimensionali. Tra i materiali 2D il più famoso è il grafene, ma ce ne sono molti altri, come il nitruro di boro. Questi materiali hanno già di per sé delle proprietà molto interessanti, ma una delle cose più interessanti emerse negli ultimi anni è la possibilità di utilizzarli per realizzare dei modulatori ottici: si tratta di dispositivi in cui si prende il materiale, lo si trasferisce in prossimità di una guida d’onda (dove passa la luce) e poi vi si applica un segnale elettrico. Il materiale è quindi in grado di passare da uno stato in cui è completamente trasparente (la luce lo attraversa) a uno stato in cui assorbe una parte di luce; con una lunghezza di propagazione sufficiente, si riesce quindi a realizzare un interruttore, in cui il segnale elettrico viene trasformato in un segnale ottico.
Quale può essere l’utilizzo di un interruttore di questo tipo?
Tutto questo viene utilizzato tipicamente per le telecomunicazioni. Oggigiorno abbiamo la necessità di trasportare quantità di dati sempre più alte. Ma il collo di bottiglia non sono tanto le fibre ottiche dove i dati passano: ciò che ancora ci limita sono proprio questi dispositivi optoelettronici, che servono da ponte tra il mondo dei segnali elettrici (quello dei computer) e il mondo dei segnali ottici (quello delle fibre ottiche). C’è quindi questa specie di mondo di mezzo tra ottica ed elettronica, cioè l’optoelettronica, che rappresenta un importante tassello per riuscire a comunicare su larghe distanze. Questa necessità ha generato molto interesse nel creare nuovi dispositivi optoelettronici, sempre più piccoli e con materiali appositamente ingegnerizzati. Si cerca inoltre di integrarli direttamente sul silicio con la parte elettronica. Oggi un modulatore è un dispositivo abbastanza grande (delle dimensioni di qualche centimetro); l’obiettivo è quello di miniaturizzarlo, in modo da inserirne parecchi sullo stesso chip di silicio.
A cosa serve miniaturizzare un dispositivo?
Al momento ci troviamo nella stessa situazione in cui ci trovavamo qualche decennio fa coi computer: all’epoca si realizzavano computer molto ingombranti e con scarsa velocità. La miniaturizzazione è sempre la chiave per avere maggiore velocità e, in questo caso, maggiore capacità di comunicazione. Al momento, questi dispositivi sono ingombranti e limitano molte applicazioni. Avere un chip con diversi dispositivi molto piccoli ci consente di avere molti canali di informazione. Su una fibra ottica è possibile trasportare una grande quantità di informazione, ma i dispositivi optoelettronici devono essere miniaturizzati per poter sfruttare questa capacità.
Il problema menzionato è quello che motiva tantissime ricerche nel settore dell’optoelettronica. Ma nello specifico, quale obiettivo ha questa ricerca?
Ho detto prima che i materiali 2D sono molto interessanti, perché è possibile cambiare le loro proprietà ottiche applicando una tensione elettrica. Applicando una tensione elettrica, si riescono a “iniettare” degli elettroni. Una volta che questi elettroni si trovano dentro il materiale, interagiscono con i fotoni e cambiano le proprietà del materiale. Questo metodo presenta tuttavia un problema: iniettare elettroni richiede tempi relativamente lunghi (benché si parli di nanosecondi). Si parla di un limite importante alla velocità che questo interruttore può avere. L’idea è dunque quella di rendere l’interruttore ancora più veloce, in modo che possa accendere e spegnere la luce con la frequenza più alta possibile e trasmettere quindi più informazioni. Per accelerare il processo, proponiamo un sistema completamente diverso, in cui non cambiamo il numero di elettroni dentro il materiale, ma cambiamo la “struttura a bande” del materiale: creiamo cioè un potenziale elettrico che perturba il comportamento degli elettroni; questo consente di avere un materiale con proprietà diverse.
Come si realizza?
Invece di mettere il materiale 2D su un chip in silicio, lo mettiamo su un substrato speciale composto da due ossidi (alluminia e afnia), che sono isolanti. Sviluppiamo cioè una tecnologia che crea dei substrati di questo tipo, in cui si alternano i due ossidi che hanno dimensioni inferiori ai 2 nanometri. Su questo substrato si pone il materiale 2D e, applicando una tensione, anziché iniettare elettroni (che è un processo lento), facciamo sì che si crei un campo elettrico oscillante nello spazio. Questo consente di cambiare le proprietà del materiale su scala nanometrica, dove esse sono governate dalla meccanica quantistica. Se questo concetto funzionasse, potrebbe avere delle implicazioni enormi, perché ci consentirebbe di realizzare un materiale che possa assorbire ed emettere luce in modo molto efficiente alle frequenze che vogliamo.
Quali sono le lunghezze d’onda a cui volete che il materiale assorba/emetta luce?
Tipicamente, alcuni materiali possono assorbire o emettere soltanto la luce visibile, ma le telecomunicazioni su fibra avvengono solitamente nell’infrarosso. Quindi l’idea è di fare in modo che il materiale assorba nell’infrarosso anziché nel visibile. Nella mia ricerca mi concentro soprattutto sulla parte dell’assorbimento.
Perché serve alternare due ossidi? Non funzionerebbe utilizzando un substrato composto uniformemente da un solo ossido?
No, perché non cambieremmo la struttura a bande del materiale. Quello che noi vogliamo è creare un processo più veloce di quello che consiste nell’iniettare elettroni. Con un solo ossido, applicando una tensione elettrica, si creerebbe un campo elettrico uniforme nello spazio e il processo sarebbe lento. Per velocizzare il processo, dobbiamo creare un campo elettrico che cambi nello spazio e questo lo si può fare applicando una tensione elettrica a strati alternati di due ossidi. Perché funzioni, devono essere variazioni piccolissime (dell’ordine di 2 o 3 nanometri) e avere quindi un campo elettrico che oscilla nel raggio di quei 2 o 3 nanometri. Questo è impossibile con una processi di fabbricazione normali, perché in tal caso riusciremmo ad avere strutture di 10 nanometri.
In che fase si trova la vostra ricerca?
Siamo nel primo step, i cui il progetto consiste ancora in una ricerca di base, in cui noi osserviamo i fenomeni di cui abbiamo parlato: si parla ancora di fisica applicata, non di ingegnerizzazione del dispositivo. Una volta verificata la resistenza di questi ossidi a tensioni alte, poniamo sopra il materiale in 2D e si eseguono misure ottiche. Quando questo step sarà dimostrato e riusciremo a osservare questi fenomeni, il passo successivo sarà quello di creare il dispositivo (secondo step) e dimostrare che il modulatore realizzato funzionerà. Per creare un vero e proprio prodotto ci vorranno diversi anni, vista la complessità della ricerca. Ma l’obiettivo è quello di dimostrare, alla fine dei cinque anni di progetto, la funzionalità del processo.
Esistono altri studi paralleli al vostro, che hanno l’obiettivo di ingegnerizzare i materiali 2D per questi scopi?
Uno degli argomenti più caldi oggigiorno, che riguardano i materiali in 2D, sono delle strutture chiamate pattern di moiré, cioè due materiali in 2D messi l’uno sull’altro in maniera leggermente ruotata. Questo già crea di per sé delle strutture periodiche nello spazio, che dovrebbero avere la stessa funzione dei nostri due ossidi. Ma non possono competere con quello che proponiamo noi, perché hanno effetti troppo deboli e inoltre funzionano solo a temperature bassissime. Nel nostro caso operiamo a temperatura ambiente, altrimenti non avrebbe senso parlare di dispositivi pratici.
Una ricerca complessa, ma che strada facendo può riservare belle sorprese.
Potremmo renderci conto, per esempio, che questo tipo di dispositivo possa funzionare anche come un emettitore, come un laser o un led.