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I robot spiegati a mio figlio

La prima cosa che ha detto mio figlio di tre anni quando ha visto il mio umanoide iCub è stata: «Papà, ma è finto». Certo, iCub era spento, occhi sbarrati, un po’ più grande di lui, metallo e plastica. Lui vedeva un bambino, un po’ grassottello, con qualcosa di strano. Io all’età di tre anni non sapevo cosa fosse un robot, tantomeno un robot umanoide. Sono poi arrivati i robot giapponesi, tutti umanoidi, grandi, per combattere alieni di varie fogge e fattezze. Negli anni ‘7o ci sono Goldrake e Mazinga a plasmare l’immaginario di una generazione. A completare l’opera c’è poi l’immortale Isaac Asimov che, non essendo limitato dalla realtà, sogna mondi dove i robot vivono fianco a fianco a noi. Mio figlio forse non ha bisogno di leggere Asimov per immaginare i robot. Li può vedere e toccare. Esistono. Nei vent’anni successivi cambiano tante cose. I robot arrivano nelle fabbriche. Una vera rivoluzione. È la robotica che non assomiglia a noi ma è quella che tuttora la fa da padrone: possenti braccia meccaniche che mettono insieme un’automobile. Si comincia anche a sentire parlare sempre più spesso di macchine intelligenti, di intelligenza artificiale. In quegli anni, inizio a studiare 96 Milioni dl euro E il bilancio annuale dell’Istituto italiano di tecnologia, fondato a Genova nel 2003 9 I dipartimenti e i laboratori dell’ut, in cui lavorano circa 1.500 persone fra tecnici, scienziati e ricercatori ingegneria robotica proprio perché immagino di poter un giorno costruire i robot della fantascienza e del cartone animato, robot che assomigliano all’essere umano. I robot però non devono solo assomigliare a noi nel corpo. Devono essere anche utili, capaci di muoversi sicuri nel mondo che li circonda. La cosa più importante è quindi che possano interagire con l’essere umano in maniera naturale. Per farlo è necessario dotarli di sensori. Telecamere, microfoni e soprattutto il senso del tatto per sentire quando toccano qualcosa o qualcuno e agire con delicatezza. Il senso del tatto è il segreto. È il motivo per cui un robot può essere sicuro per l’essere umano. Un po’ come la prima legge di Asimov: «Un robot non può fare del male a un essere umano». Per realizzarla nel cervello elettronico dei nostri robot dobbiamo poter disporre di vista, udito e tatto. Soprattutto il tatto per dare ai robot la consapevolezza delle proprie azioni ed errori. E qui arriva il bello, i robot moderni ce l’hanno un cervello elettronico. Le loro app sanno riconoscere quello che vedono, sentono o toccano. Sanno anche comandare i motori del robot in modo che si muova in maniera elegante. Possono apprendere un po’ come facciamo noi, osservando e mettendo insieme le informazioni per riconoscere gli oggetti, i volti, distinguere i suoni e registrare il parlato. Una parte molto importante di queste app prova a imitare le nostre capacità di interazione sociale, generando nei robot dei comportamenti simili ai nostri, piccoli gesti, movimenti fluidi, il riconoscimento delle emozioni. Queste cose un giorno ci faranno lavorare molto meglio con le macchine. Ci sentiremo a nostro agio con loro. Parliamo però di un futuro ancora non troppo vicino. A questo punto mio figlio chiederebbe: «Papà, ma le macchine imparano come noi?». Non proprio. Le macchine apprendono partendo dai dati che gli forniamo. Siamo noi gli insegnanti e dobbiamo essere pazienti, molto pazienti. A differenza dai bambini, i robot devono vedere le cose tantissime volte, ripetutamente, per settimane, per apprendere le cose più semplici. Non lo fanno da soli giocando come fanno i piccoli dell’uomo. Si parla sempre di più di big data proprio perché le macchine sono un po’ stupide e devono vedere le cose tante volte prima di impararle. A dirla tutta, non siamo neanche in grado di costruire macchine sofisticate come il nostro cervello, per cui, per ora ci accontentiamo di imitare alcune delle capacità dell’uomo. La strada per arrivare ai robot della fantascienza è ancora molto lunga. Papà non andrà in pensione tanto presto! Per questa ragione, gli scienziati pro *** vano a capire come siamo fatti noi, esseri umani, come è fatto il nostro corpo e soprattutto il cervello, per provare poi a imitarne le capacità di elaborazione utilizzando i computer. Uno studio difficile: capire come centinaia di miliardi di neuroni possano dare origine alla nostra percezione, ai nostri comportamenti, ai sentimenti, alla coscienza. Tutto questo il cervello lo fa consumando pochissimo. Con un pezzo di cioccolato un bambino va avanti per un giorno intero senza stancarsi. Alcuni dei computer con i quali facciamo funzionare le intelligenze artificiali sono un problema per l’ambiente, tanta è l’energia che consumano. La strada è ancora molto lunga prima che si possa imitare la natura. I ricercatori cercano anche di imitare la struttura del corpo, cambiando fondamentalmente come si costruiscono i robot. Siamo stati abituati a vedere i robot di metallo. Vorremmo sostituire il metallo con le plastiche intelligenti per creare dei corpi soffici, resistenti agli impatti, con meno fili e cavi, qualcosa di più simile alla natura piuttosto che all’ingegneria meccanica. Questa è la grande scommessa per il futuro. Oggi mio figlio Fabrizio ha 13 anni. Il mio robot non è cambiato tantissimo in fondo. Con Fabrizio invece posso parlare del nostro futuro. Cosa ne sarà di noi? Saremo destinati a lavorare sempre meno venendo sostituiti da macchine sempre più sofisticate? Forse no. Trovo che sarebbe bello poter lasciare i lavori ripetitivi o pericolosi alle macchine, non penso che sarà così però per quelli che hanno bisogno di creatività. Avremo bisogno dei robot dove è richiesta elevata precisione, come per esempio per la chirurgia, mentre avremo sempre bisogno della nostra intelligenza dove serve innovazione, pensiero creativo, empatia, le cose più uniche dell’essere umano. E una grande opportunità per risolvere i problemi legati all’invecchiamento, all’assistenza: la robotica troverà posto in medicina, nella gestione dell’ambiente e poi come nella migliore fantascienza nell’esplorazione spaziale. Elon Musk ci vuole portare su Marte. Se ci andremo, saremo accompagnati da tanti robot. Giorgio Metta, Vice Direttore Scientifico dell’Istituto Italiano di tecnologia e Direttore dell’iCub FacilityL’articolo è stato pubblicato a pagina 13 di Corriere Innovazione il 29/09/2017

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