Ricercatori raccontano il ricordo dell’impresa
Cinquant’anni fa la missione Apollo 11 raggiunge con il modulo Eagle la Luna. L’uomo conquista così il proprio satellite. In quel momento tutto il mondo plaude ad un’impresa che sembrava impossibile. Quello che era da sempre idealizzato come uno spazio sul quale fantasticare diveniva un luogo reale, fisico. Armstrong camminava sulla Luna, la bandiera degli Stati Uniti veniva piantata nel Mare della Tranquillità.
Ma i nostri scienziati cosa ricordano di quel giorno e come, a loro modo di vedere, lo sbarco sulla Luna ha contribuito allo sviluppo della ricerca negli anni successivi?
Abbiamo quindi chiesto a Roberto Cingolani, Giorgio Metta, Alberto Diaspro, Vittorio Pellegrini, Giulio Sandini un intervento su questo tema.
Cosa significa invece questo anniversario per una scienziata di soli 25 anni? Giulia Scoponi è nata nel 1994 ed è una dottoranda dell’IIT. Giulia rappresenta quel gran numero di giovani per i quali questo evento è un capitolo dei libri di scuola. Abbiamo chiuso le nostre testimonianze con il suo intervento.
Roberto Cingolani. «Ricordo bene quel momento e ricordo bene la voce del giornalista Tito Stagno che spiegava come venisse usato un laZer – con la zeta -per misurare le distanze durante l’allunaggio del modulo lunare. Avevo sette anni ma sapevo già che cosa fosse una laser e trovai molto strano che il giornalista non lo sapesse e che storpiasse una parola talmente semplice.
La cosa impressionante dell’impresa di cinquant’anni fa è pensare che tutta l’operazione sia stata gestita da una macchina meno potente di uno smartphone di nuova generazione che è riuscita a far volare e atterrare il LEM sul terreno lunare. Nonostante sul piano dell’esplorazione spaziale tale impresa rappresenti solo una scalfitura dell’epidermide del nostro Universo – 400 mila chilometri sono distanze che non sembrano più così immense – l’allunaggio ha significato molto per la nostra specie. Il primo uomo a calpestare un suolo non terrestre e una enorme quantità di tecnologia spinta di cui ancora oggi possiamo beneficiare. Consideriamo ad esempio che il LEM era già dotato di celle a combustibile per la propulsione e sia i materiali sviluppati per la missione che le strumentazioni sono in uso ancora oggi con le dovute modifiche. Il prossimo suggestivo passo dell’uomo su suolo non terrestre potrebbe essere su Marte. Questa operazione richiederà molti più sforzi e tecnologia dell’impresa del ’69 e rappresenterà sicuramente una delle sfide che segneranno il nostro tempo».
Alberto Diaspro. «Sono nato nel 1959, l’anno della lettura di Feynman che ha posto le basi di quelle che oggi chiamiamo nanotecnologie e che hanno fatto si che la fantascienza diventasse contemporanea. Nel 1959 l’Unione Sovietica inizio un programma spaziale lanciando il primo veicolo progettato per andare oltre la Luna, con scarso successo. Nel 1969 il Lem dell’Apollo 11 tocca la superficie lunare e Neil Armstrong posa il “piede dell’umanità” sulla superficie lunare lasciando una impronta che emoziona il mondo, quasi quanto quella del DNA ottenuta e pubblicata per la prima volta negli anni novanta.
Era estate, avevo da poco passato i dieci anni e la sera del 20 luglio nel pieno delle vacanze estive in montagna, a Colfosco in Val Badia, le famiglie dei villeggianti avevano richiamato dai giochi figlie e figli per assistere a quella incredibile avventura raccontata dalle voci di Tito Stagno e Ruggero Orlando con il sottofondo della parlata americana del centro di Houston.
Bocche aperte, sguardo fisso sulla televisione in bianco e nero posizionata al centro della sala da pranzo dell’hotel I giovani seduti per terra e gli adulti sulle seggiole. Erano passati più di cento anni dal memorabile racconto di Jules Verne, Dalla Terra alla Luna, che sapeva di fantascienza. Non sapevamo esattamente cosa fosse la fantascienza ma in quel momento stavamo vivendo un’avventura dell’umanità. La mattina dopo, assonnati ed eccitati, tutti, bambini e bambine volevamo fare gli astronauti. Quelle immagini, le voci a volte roche e volte emozionate dei giornalisti televisivi, quel “Qui Houston”, “Qui Ruggero Orlando” o “Ha toccato!” sono state scolpite nel nostro DNA, registrate nelle nostre reti neuronali per sempre.
Cento anni da Verne, dieci da Feynman e la fantascienza, cinquantanni dopo è diventata davvero contemporanea e possiamo pensare, con le dovute cautele, ad un viaggio su Marte quando faremo posare sulla superficie del pianeta il robot plantoide di Barbara Mazzolai per cercare le risorse che servono alla vita, scansare i pericoli ed esplorarne la superficie. Quella sera cuccioli di umano e cuccioli di robot assisteranno in diretta all’evento attraverso i loro “google” occhiali tenendosi per mano seduti su una specie di tappeto volante in grafene».
Giorgio Metta. «Quanto avvenne cinquant’anni fa con lo sbarco del primo uomo sulla luna fu un evento eccezionale dal punto di vista tecnologico e mediatico. Anche se io non ero ancora nato in quel giorno, l’emozione dell’impresa risuona ancora nella comunità scientifica. E’ stato uno di quegli eventi che ha fatto capire all’umanità intera come il lavoro degli ingegneri e scienziati, le nuove tecnologie, possano portare a grandissimi risultati in breve tempo.
Abbiamo oggi altre sfide. Altri “progetti Apollo” che riguardano la salute – la lotta al cancro per esempio – capire come aggiustare il nostro genoma quando si presentano dei problemi, ma anche la sfida dei cambiamenti climatici, la sostenibilità ambientale, l’approvvigionamento energetico, grandi sfide che richiedono un approccio multidisciplinare e un impegno del mondo tutto. Non dimentichiamo infine uno dei problemi più intricati: capire come funziona il cervello e convertire questa conoscenza in macchine intelligenti. Un progetto Apollo per il prossimo futuro».
Vittorio Pellegrini. «È stata una impresa che ha permesso all’umanità di avere uno sguardo diverso in un momento storico “claustrofobico” e confuso.
Come tutte le grandi imprese, è stata resa possibile da un uso maniacale delle tecnologie di punta disponibili, dai circuiti integrati usati dal MIT per sviluppare il computer che ha guidato le missioni Apollo, all’uso di tecniche di stampa particolari (oggi diffuse nel footwear sportivo) per realizzare suole per le scarpe degli astronauti in grado di assorbire gli urti. Probabilmente però il suo impatto emozionale è stato maggiore di quello tecnologico».
Giulio Sandini. «Luglio 1969 un mese davvero particolare. Iniziava con la prova scritta di italiano il mio esame di maturità al Liceo Scientifico Paolo Giovio di Como. Era il primo anno della “sperimentazione” (durerà 29 anni fino al 1998…): due prove scritte e due materie orali di cui una a scelta dello studente sul solo programma dell’ultimo anno. Esame più leggero di quello del “modello Gentile” che prevedeva quattro prove scritte e una prova orale su “tutte le materie” del programma degli ultimi tre anni. Conseguenza del ’68 e delle lotte studentesche? Forse. Certamente è in quell’anno che con la liberalizzazione degli accessi universitari cadono le distinzioni tra le tipologie di diplomi, e nasce l’università di massa. Dell’esame ricordo il tema di Italiano sui problemi della società europea nei primi anni del ‘900 (la storia si ripete…) e lo scritto di matematica con un triangolo inscritto in un cerchio e lo studio di funzione. Andai all’orale in giacca e cravatta, si preferiva così nelle grandi occasioni, nonostante la lotta di classe, l’occupazione e le assemblee d’Istituto di qualche mese prima. Per l’orale fui uno dei primi (forse avevano estratto la “P”). Non ricordo come andò ma ricordo che finiti gli orali e in attesa del verdetto, con Roberto, compagno di classe, partimmo per la montagna. Più o meno quando l’Apollo 11 partiva per la Luna.
La Svizzera, la valle Engadina, ad un paio d’ore da Como rappresentava contemporaneamente un punto d’arrivo con la bellezza turchese dei suoi laghi alpini e un punto di partenza per raggiungere cime più alte. La valle una pausa prima di riprendere il cammino. Quale migliore metafora di quei giorni! Seduti in riva al lago a godere della leggerezza che ti lascia una prova superata e del senso di libertà e di sfida che si prova guardando le montagne. Sentirsi liberi di decidere quale cima affrontare e quale percorso seguire.
È con questo stato d’animo che, in quel periodo, seguivo l’avventura dello sbarco sulla Luna. Di quel 20 luglio ricordo una televisione (naturalmente in Bianco e Nero) in una “stube”. La telecronaca forse in tedesco ma non sono sicuro perché le lingue e le nazioni sembravano non avere importanza. Eravamo elementi dell’umanità. Ricordo che quella notte dopo l’allunaggio e in attesa dello sbarco guardando la Luna (se ne vedeva un pezzetto) il pensiero che lassù ci fossero due come noi (si fa per dire) in attesa di aprire la porta e scendere, annullava la distanza, cancellava i confini. Certo la bandiera era quella americana ma la Luna era un traguardo di cervelli senza tempo e senza confini. Una storia sintetizzata solo l’anno prima in modo magistrale dal monolite di Kubrick e Clarke nel passaggio dagli ominidi alla stazione spaziale. Le immagini erano la prova che lo spazio poteva essere esplorato, che qualcuno di noi aveva messo il piede nella fantascienza trasformandola in realtà. 20,000 leghe sotti i mari, dalla Terra alla Luna…la realtà, ancora una volta, superava la fantasia!!
Qualche mese dopo ci trasferimmo da Como a Genova dove, rimessi nel cassetto i documenti già compilati per l’iscrizione al “Poli”, avrei incontrato i maestri da cui ho imparato e le persone importanti della mia vita e dove, con qualche parentesi toscana e americana, sarei cresciuto. Non so quando ci sarà nuovamente una avventura altrettanto simbolica per l’umanità come il primo sbarco sulla Luna. Al momento sembra difficile anche solo governare decentemente la Terra, ma ricordo ancora la sensazione che provai guardando per la prima volte le immagini che mostravano un essere umano in primo piano e, sullo sfondo, la Terra. Una piccola sfera sospesa. Un mappamondo sul quale non erano tracciati confini se non quelli marcati degli oceani e quelli sfumati delle nuvole. Che la nuova entusiasmante avventura sia sbarcare finalmente sulla Terra?».
Giulia Scoponi. «Io sono nata 25 anni dopo l’allunnaggio, quando la Luna sembrava già così vicina. Pur non portando con me l’emozione di quel momento, posso assicurare che anche la mia generazione sente la risonanza di un evento così importante per l’uomo e per la scienza. Se penso a quell’impresa, come molti miei coetanei, la mia mente va al filmato in bianco e nero di Neil Armstrong visto in qualche documentario e ai racconti affascinati e affascinanti dei miei genitori.
Noi quell’evento l’abbiamo studiato sui libri di scuola, esattamente come il crollo del muro di Berlino e altre imprese determinanti per l’umanità.
Credo che il fascino dell’ignoto e la forte necessità dell’uomo e dello scienziato di conoscere ciò che ci circonda, anche nello Spazio, abbia la capacità di farci sentire piccoli ma allo stesso tempo sorprenderci. Ecco per me cosa rappresenta l’allunaggio, come giovane scienziata: l’esaltazione a cui può portare la ricerca di ciò che non conosciamo, ma che abbiamo il coraggio di provare a scoprire».