Il mondo della ricerca britannico è molto nervoso
La ragione è ovviamente la Brexit, ora diventata irreversibile dalla fine dello scorso gennaio e operativa dal primo gennaio 2021. Soprattutto in un contesto politico ancora confuso, dove le minacce di no-deal si alternano a tentativi di uscita morbida, come racconta il Guardian (https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/feb/03/boris-johnson-weak-brexit-uk).
Nervosi sono anche i 700mila connazionali che vivono in Gran Bretagna, in particolare i 15.000 che ogni anno si iscrivono agli atenei britannici e che temono un aumento delle rette a partire dal prossimo anno. Infine i circa 5.000 ricercatori italiani che vivono e lavorano in UK, che insieme ai colleghi portoghesi spagnoli e polacchi hanno scritto lo scorso agosto una lettera a Nature (https://www.nature.com/articles/d41586-019-02433-7) per segnalare il grave pericolo di una rottura netta con l’Europa che metterebbe a repentaglio fondi, mobilità e il poter partecipare sullo stesso piano degli altri paesi al prossimo programma quadro europeo e alla preziosa libertà di circolazione che si respira in Europa. Le ambasciate rassicurano: poco o nulla cambierà, almeno nel breve periodo. I visti saranno garantiti, soprattutto per i più meritevoli, mentre i comuni mortali ricadranno nelle maglie del piano per l’immigrazione “a punti“ sul modello australiano.
E per gli inglesi cosa cambierà a levare gli ormeggi dal continente? Il punto principale è proprio questo: in che termini gli inglesi potranno continuare a partecipare al programma di ricerca europeo Horizon Europe, che dovrebbe stanziare circa 100 miliardi di euro nel prossimo settennio (2021-2027)? Le università britanniche, peraltro appena sotto a quelle statunitensi nelle classifiche mondiali, come Oxford, Cambridge e Imperial College, ostentano calma, ma hanno destinato pagine dedicate sui loro siti ad aggiornare sulla situazione e soprattutto rassicurare studenti e ricercatori stranieri (https://www.imperial.ac.uk/about/imperial-and-the-european-union/support-for-staff/eu-settlement-scheme/).
Da parte sua, anche lo UK Research Office tiene aggiornati i Brexit Factsheet (https://www.ukro.ac.uk/Pages/brexit.aspx) sulla partecipazione britannica ai progetti europei.
Il 2020 dunque sarà l’anno decisivo per trovare un buon accordo che permetta all’Inghilterra di non tagliare i ponti con il continente nel campo della ricerca. Da un lato – come spiega Paolo Vineis, docente di epidemiologia ambientale all’Imperial College: “In ambito scientifico si rimpiangono i finanziamenti europei sopratutto perché si tratta di un meccanismo ben collaudato di assegnazione di fondi, che premia e promuove la collaborazione internazionale”. La percezione diffusa fra i ricercatori oltremanica è che che la ricerca senza collaborazione internazionale in mancanza di un accordo si impoverisce.
Le domande più frequenti sono tre: Se, e a quali condizioni, si consentirà al Regno Unito di partecipare ai programmi di ricerca europei? Come verrà regolata la mobilità dei ricercatori (es. i programmi Marie Curie)? E i ricercatori stranieri avranno un canale privilegiato (pensiamo ai visti)? Come verrà regolato il trasferimento delle informazioni? “Si pensi ad esempio alle regole e limitazioni che sovrintendono il rispetto della direttiva sulla privacy (GDPR) nella ricerca che utilizza data base di popolazioni. Saranno necessari ulteriori accordi fra Europa e UK per rendere le normative compatibili?” commenta ancora Paolo Vineis.
Sotto la presidenza finlandese, la Commissione europea ha garantito la prosecuzione dei progetti europei in essere che coinvolgono la Gran Bretagna, ma già facendo intravedere quali saranno le inevitabili limitazioni conseguenti alla decisione di lasciare l’Unione: “La partecipazione di altri paesi terzi ai programmi dell’Unione dovrebbe essere soggetta a un accordo che stabilisca le condizioni applicabili alla partecipazione del paese terzo interessato a qualsiasi programma. Tale accordo dovrebbe garantire un giusto equilibrio per quanto riguarda il contributo e i vantaggi del paese terzo che partecipa ai programmi dell’Unione, non conferire alcun potere decisionale a tali programmi e contenere norme per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione”.
Dunque, bene che vada, stiamo parlando di un “paese terzo”, come la Svizzera e la Norvegia, che dopo il 2020 potrà partecipare ai progetti, ma senza potere di decidere l’indirizzo e la strategia del programma comunitario, e… pagando di tasca propria la partecipazione dei suoi centri e ricercatori. È anche vero che il sistema della ricerca britannico ha uno standing internazionale a cui l’Europa difficilmente può rinunciare, e che comunque nel momento in cui la Gran Bretagna si allontana dall’Europa, potrebbe ispirarsi maggiormente agli Stati Uniti, ancora prima potenza scientifica mondiale.
“Il Regno Unito potrebbe in teoria sopperire al venire meno dell’accesso ai fondi europei potenziando ulteriormente l’investimento nazionale e gli accordi bilaterali, come quelli già esistenti con gli USA” commenta il ricercatore dell’University College di Londra Alessandro Allegra, segretario dell’Associazione degli Scienziati Italiani in UK (AISUK) (https://www.aisuk.org/). “Ma questo risolverebbe il problema solo fino ad fino a un certo punto, perché con regole e accordi economici differenziati, il rapporto fra scienziati fra i due lati della Manica è sicuramente più complesso, incrementando la burocrazia e i costi di transazione per poter collaborare. A conti fatti, il sistema della ricerca Britannico, e probabilmente anche quello europeo, ne uscirebbero indeboliti.
Come racconta l’Economist (https://www.economist.com/britain/2020/01/23/recreating-arpa-the-most-successful-research-agency-in-history) inoltre, il governo di Boris Johnson sta già pensando di potenziare il sistema della ricerca nazionale ricreando in patria l’equivalente dell’ARPA (Advanced Research project Agency) che il governo di Lyndon Johnson creò negli USA nel 1957 per fronteggiare la minaccia sovietica rappresentata dal lancio del primo satellite, e che in pochi anni con un budget di 3,5 miliardi di euro (valuta attuale) dischiuse il futuro delle nuove tecnologie missilistiche e stealth, del laser, del GPS, dei computer e – last but not least – della creazione di internet.
Intanto, però, si segnalano il trasloco dell’Agenzia europea del farmaco EMA da Londra ad Amsterdam, l’apertura del nuovo centro di calcolo meteo dell’European Center for Medium Range Weather Forecast (Ecmwf) di Reading a Bologna, e il possibile passaggio del Tribunale dei brevetti dalla City a Milano (o altrove in Europa). Pezzi di Europa che se ne vanno, in risposta alla “più insensata e masochistica decisione” degli ultimi decenni, secondo la definizione che della Brexit ha dato lo scrittore britannico Ian McEwan (https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/02/04/news/io_che_volevo_restare_in_europa-247517687/?ref=RHPPBT-BH-I246510921-C12-P7-S3.4-T1)
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Luca Carra è direttore di Scienzainrete e segretario del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica. Si occupa di scienza, ambiente e salute. È socio dell’Agenzia Zadig. Collabora con varie testate, fra cui Corriere della Sera. È autore di diversi libri, fra i quali “Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica” scritto insieme a Paolo Vineis e Roberto Cingolani. Insegna comunicazione ambientale al Master di comunicazione scientifica della Sissa (Trieste) e del MAcsis (Università Bicocca, Milano)