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Creatività e visione euristica per l’intelligenza artificiale

Intervista a Telmo Pievani, Ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova, filosofo della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione

 

L’incontro che IIT organizza il prossimo 16 febbraio verterà su futuro e intelligenza artificiale. Queste due parole sono divenute di uso comune tanto che quando non si riesce a dare una spiegazione convincente a qualche accadimento ci si rifà all’intelligenza artificiale per esaltarne le potenzialità o per indicarla come il male prossimo venturo. Come conviveranno intelligenza umana e intelligenza artificiale?

Ho avuto modo di leggere il nuovo piano strategico di IIT nel quale questo argomento viene affrontato in profondità con una visione molto positiva. Io credo che questo tema vada approfondito in modo creativo con una visione euristica. Un approccio che si può concretizzare rispondendo a queste domande: hai un nuovo strumento a disposizione? Permette di porti nuove domande? Ti aiuta a scoprire qualcosa di nuovo? Ti indica un modo più agevole per realizzare semplicemente ciò che prima ti risultava complicato? Allora siamo al cospetto di una nuova tecnologia buona perché aumenta la possibilità di scelta e ci offre nuove e migliori opportunità. Se la nuova tecnologia interviene invece per tentare di modificare attività che l’uomo già conduce in modo efficace o scimmiotta indegnamente ciò che esso realizza da milioni di anni, non siamo al cospetto di un buon uso della tecnologia. Addirittura, in questo caso la tecnologia riduce le possibilità di scelta, le opportunità lavorative, frustra la creatività. Quindi io manterrei saldo questo principio cibernetico: se una nuova tecnologia aumenta le tue possibilità di scelta è buona, se le riduce è cattiva, una sorta di principio di base dell’etica delle tecnologie che applicherei anche nel caso dell’intelligenza artificiale.

Ancora una volta siamo preoccupati per un futuro che facciamo fatica a decifrare. Temiamo che l’uomo venga spazzato via dalla tecnologia. Il genere umano nella sua storia ha reagito con timore alle novità emarginando, usando un eufemismo, pensatori e scienziati ai quali dobbiamo invece tanto. I suoi scritti su Darwin dimostrano quanto l’arroccamento conservatore possa frenare fondamentali osservazioni. Oggi è ancora così nei confronti di processi innovativi tanto rapidi?

Sì, è vero. La novità sostanziale nei confronti dei processi che stiamo osservando è il ritmo accelerato, che definiamo gap evolutivo. L’essere umano è specie molto lenta dal punto di vista biologico, un po’ di meno dal punto di vista cognitivo perché abbiamo scoperto di avere una plasticità e una flessibilità cognitiva oltre ogni aspettativa. Nonostante ciò, il nostro cervello arranca quando deve affrontare scenari in così rapida evoluzione. Noi lo definiamo jet lag, come lo stato del viaggiatore che si trova “indietro di fuso orario”. Il nostro cervello dinanzi a mutamenti tanto rapidi tende al rifiuto e prova a rimanere indietro. Si tratta però di una reazione momentanea perché immediatamente dopo questa fase di difesa il nostro cervello innesta quelle sue capacità formidabili che gli permettono di reinventarsi utilizzando sempre le vecchie strutture: è la magia vera della nostra mente, il bricolage. Noi oggi leggiamo e scriviamo con strutture neurali che una volta servivano per orientarci nello spazio e scrivere è stata una sfida per la nostra mente. Adesso pensiamo che leggere e scrivere sia del tutto naturale per noi, ma non è così. Tutto ciò per sottolineare che è sempre sorprendente osservare che il cervello umano modifica l’ambiente attorno a sé e crea nuove nicchie ambientali come il web, per esempio, nuovissimo per il nostro cervello anche se ha trent’anni. La nostra mente crea degli ambienti nuovi nei quali poi si adatta. Io quindi non vivo questi mutamenti nella dicotomia passato, presente o reazione, adattamento. Nel nostro processo evolutivo siamo protagonisti del cambiamento del mondo e poi ci adattiamo. Ora tutto questo avviene molto più velocemente che in passato e ciò implica essenzialmente delle incognite di tipo etico che possono riguardare coloro che approfittano dei veloci mutamenti per obiettivi malvagi di breve periodo.

Il suo impegno nella divulgazione scientifica ha un grande valore, avvicina alla scienza strati di popolazione molto distanti per diverse ragioni da questi temi. Lo stesso impegno sembrano profonderlo i teorici sostenitori dell’analfabetismo di ritorno che hanno nel terrapiattismo condito da fake news la quotidiana espressione. Come affrontare questi fenomeni?

Si deve cercare di comprendere questi fenomeni, non certo giustificarli. Se vuoi sconfiggere un nemico devi cercare di capire come riesce ad essere così persuasivo e perché goda di un tale consenso: perché le fake news hanno successo. Ciò è dovuto al fatto che queste informazioni vengono create attingendo ad una faretra gonfia di frecce e si alimentano facendo leva sulla sfiducia di tanti verso le istituzioni, la scienza, la tecnologia. Tra i redattori di queste informazioni vi sono coloro che amano essere anticonformisti a tutti i costi. Se la scienza è giunta ad una conclusione dimostrata e condivisa compare subito chi confeziona una interpretazione lacunosa scientificamente ma mediaticamente attrattiva. Prima di adottare queste tesi si dovrebbe sempre ricordare che nella scienza il bastian contrario ha l’onere della prova, va bene il dissenso ma è necessario portare nuove evidenze a supporto della propria tesi. Nei miei studi analizzo le ragioni ancora più profonde che ci preoccupano e la loro comprensione ci può permettere di disinnescare questi meccanismi. Abbiamo scoperto che il cervello umano, per come si è evoluto anticamente, è attratto da spiegazioni di tipo finalistico, animistico, interpretazioni complottistiche o dietrologiche. Questa osservazione motiva il successo delle fake news che sono costruite facendo leva su questa tendenza. Quindi “ti spiego io come sono andate veramente le cose”, “ti stanno ingannando” o “siamo al centro di un grande complotto” sono le elaborazioni ricorrenti dei produttori di fake news che però ci piacciono, così come siamo attratti dalla negazione del cambiamento climatico o nei casi estremi dalle teorie sul terrapiattismo. Nel dibattito internazionale che si sta sviluppando su questo tema si tende a sottolineare la qualità dei contenuti e la conseguente perniciosità delle fake news. C’è una netta differenza nella presa sul pubblico di una falsa notizia ideata da un buontempone, il terrapiattismo ne è un esempio, rispetto a un’informazione falsa su argomenti che riguardano la salute delle persone o sul cambiamento climatico. In questi casi le fake news influenzano i comportamenti delle persone e possono creare danni a livello globale.

Nel suo libro scritto con Mauro Varotto, “Il giro del mondo nell’Antropocene”, viene raccontato l’affascinante viaggio nel 2872 di Ian Fogg che ricorda, mille anni dopo, il Phileas Fogg de “Il giro del mondo in 80 giorni” di Verne. Viene affrontato così il grande tema del futuro del pianeta reso incerto dalla scarsa sensibilità ambientale. Ce la faremo?

 Questo libro prende le mosse dalla presa di coscienza di un fallimento. Noi parliamo di climate change da cinquant’anni. Piero Angela prima di lasciarci aveva osservato che la prima trasmissione televisiva sul cambiamento climatico l’aveva messa in onda cinquant’anni prima della puntata nella quale riprendeva gli stessi argomenti con lo stesso linguaggio accurato e chiaro qualche anno fa. Nulla era cambiato. Ciò dimostra che se per un tempo tanto lungo ci si impegna per sensibilizzare su di un tema e i risultati sono scarsi o nulli significa che il messaggio non ha raggiunto la gente. È necessario quindi cambiare il linguaggio analizzando gli errori del passato. Da questo presupposto è iniziata la mia analisi e quella di Varotto che ha evidenziato quanto sia illusorio pensare che si possa raggiungere il largo pubblico proponendo solo analisi dettagliate, corroborate da dati puntuali o contare sulle manifestazioni che offrono in diverse città, come il Festival della Scienza di Genova, incontri dedicati alla divulgazione scientifica. I risultati oggettivi di questo impegno ci dicono che raggiungiamo un pubblico di circa ottocentomila italiani già ampiamente sensibilizzati sui problemi ambientali e convinti assertori del bisogno di un cambiamento delle politiche ambientali. Non dobbiamo lavorare solo su questa esigua compagine, ma sui rimanenti 58 milioni di italiani. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo essere molto pragmatici e utilizzare i media che raggiungono il grande pubblico, televisione e web in testa, fonti di intrattenimento e informazione a getto continuo. Per far parte di questi mondi parlando di scienza è necessario, come sottolineiamo ne “Il giro del mondo nell’Antropocene”, provare a miscelare i linguaggi parlando di climate change, evoluzione, crisi della biodiversità, mescolando emozioni negative e positive, evidenze e ironia. Se si mantiene un registro solo allarmista e negativo, induciamo i nostri lettori ad una reazione difensiva e rassegnata. Per evitare di finire in questa deriva nel volume presentiamo delle mappe che sono efficacissime per il processo divulgativo, la mia fiction dove mi propongo nella veste del narratore, mentre Varotto da scienziato espone i dati. Abbiamo così messo in pratica il principio secondo il quale un dato scientifico viene compreso e ricordato più facilmente se integrato da una performance artistica dalla musica, al teatro, alle immagini.

Un esempio di successo di questa sua modalità per una divulgazione scientifica diffusa è il lavoro che conduce con la Banda Osiris, raffinato e versatile gruppo pop italiano

Sì, nella performance teatrale con questo gruppo musicale propongo i miei contenuti scientifici uniti alla loro comicità dissacrante, la musica, un momento poetico. In un’ora e mezza io riesco a comunicare tantissimi dati scientifici inseriti in un flusso narrativo coinvolgente. Lo spettatore si alza dalla poltrona avendo imparato un po’ di cose divertendosi. Non bisogna neanche in questo caso illudersi di aver informato lo spettatore in modo approfondito, ma quello che rimane anche grazie ad una emozione è sicuramente difficile da cancellare.

Il pubblico che assiste a questi spettacoli apprezza questa dimensione così coinvolgente e anche sorprendente della scienza e dello scienziato. Forse l’Accademia non è dello stesso avviso.

Stiamo assistendo ad una positiva evoluzione culturale in questo senso. Ho sentito molto la pressione conservativa dell’accademia quando sono rientrato dagli Stati Uniti nel 2001. Si pensava allora che la divulgazione scientifica potesse essere appannaggio di docenti e scienziati in età di pre-pensione. Oggi, dopo anni di esperienza nel Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in posizioni apicali, posso dire che queste considerazioni vetuste sono scomparse. La diversa considerazione nei confronti della divulgazione scientifica è corroborata da diversi fattori. Il primo è sicuramente la terza missione che è divenuta un obbligo professionale per tutti i docenti universitari. Dal prossimo anno anche l’impegno nella comunicazione dei docenti universitari sarà un fattore per l’ottenimento dei finanziamenti. Si sta facendo strada, seppur lentamente, l’impostazione anglosassone dell’organizzazione del sistema universitario. Un modello nel quale, per rispetto verso i finanziatori pubblici o privati, l’Ateneo ha l’obbligo di comunicare con continuità e trasparenza i contenuti del proprio lavoro al grande pubblico. È uno dei tanti segnali di un cambiamento, di una maggiore sensibilità verso la comunicazione e la divulgazione scientifica.

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