Intervista a Teresa Pellegrino, coordinatrice della linea di ricerca “Nanomaterials for Biomedical Applications” di IIT
Esistono innumerevoli modi di combinare particelle di materiali diversi, che talvolta portano a importanti risultati, come nuovi nanomateriali dalle svariate funzioni. Alcuni di questi risultati sono perseguiti dal team di Teresa Pellegrino, ricercatrice alla guida del gruppo di Nanomateriali per Applicazioni Biomediche dell’Istituto Italiano di Tecnologia e vincitrice di due progetti dell’ERC.
Il progetto ERC starting ICARO mira a sviluppare eterostrutture inorganiche, a più componenti, che hanno dimensioni nanometriche, cioè dell’ordine del miliardesimo di metro, e che consentono di combinare radio, ipertermia e chemioterapia in un’unica terapia specifica contro i tumori.
Il progetto ERC-Proof of Concept HyperCube, è invece volto alla produzione su larga scala di nanoparticelle magnetiche dalla forma cubica, essenziali mattoncini per poter combinare l’ipertermia magnetica con il rilascio di farmaci controllato e con la radioterapia.
Teresa Pellegrino, che tipo di ricerca svolgete?
Il gruppo che guido realizza materiali per applicazioni biomediche. Di nostro particolare interesse sono due classi di materiali inorganici: quelli magnetici e quelli semiconduttori. La nanoparticelle inorganiche hanno una dimensione inferiore ai 30 nanometri (miliardesimi di metro). Tuttavia, quando le usiamo come mattoncini da assemblare con dei polimeri (catene di molecole) per accorpare le rispettive proprietà, le dimensioni degli assemblati possono raggiungere i 100-400 nanometri. In alcuni casi includiamo le nanoparticelle inorganiche in oggetti polimerici ancora più grandi, come le microcapsule. Gli studi che noi facciamo ricadono in due settori: quello della ricerca fondamentale e quello della ricerca applicata. Per quanto riguarda la ricerca fondamentale, sviluppiamo procedure di sintesi, cioè mettiamo a punto dei metodi chimici per produrre le nanoparticelle inorganiche. Sviluppiamo inoltre procedure di funzionalizzazione, ossia “decoriamo” la superficie di questi materiali con delle macromolecole: per esempio, si utilizzano dei polimeri intelligenti, detti polimeri stimoli-responsivi, che rispondono a degli stimoli specifici e che consentono di effettuare il rilascio controllato di farmaci previamente incapsulati. In ambito di ricerca applicata, invece, testiamo i nostri materiali su cellule tumorali e lo facciamo sia con cellule da laboratorio che con cellule recuperate da biopsie di pazienti oncologici, che vengono mantenute in particolari condizioni che ricapitolano le caratteristiche di piccole masse tumorali. Con i materiali più promettenti, si rendono necessari poi degli studi in vivo su modelli murini preclinici. In questa direzione, abbiamo recentemente avviato studi di ipertermia magnetica e fototerapia.
Che cos’è l’ipertermia magnetica?
Si tratta di un processo di generazione di calore controllabile in remoto: se si espongono le nanoparticelle magnetiche ad una bobina, in cui viene fatta passare corrente alternata ad alta frequenza, sotto l’azione di questo campo magnetico esse accumulano energia magnetica, che in seguito dissipano sotto forma di calore nell’ambiente circostante. Il calore, se rilasciato direttamente su cellule tumorali,induce degli effetti dannosi e citotossici per stress termico (l’ipertermia appunto). Ciò non accade su tessuti sani, sia perché le particelle magnetiche che dissipano calore vengono iniettate all’interno del tessuto malato e sia perché i tessuti tumorali hanno un sistema vascolare compromesso, che non è in grado di dissipare calore così bene come invece avviene nei tessuti sani. Pertanto, le cellule malate tendono a surriscaldarsi molto più facilmente e di conseguenza muoiono .
In sostanza, ciò che voi fate è sviluppare determinati materiali sotto forma di nanoparticelle, in grado di surriscaldare le cellule malate?
L’ipertermia magnetica è un metodo introdotto in clinica negli ultimi vent’anni. Il problema principale, tuttavia, è che le particelle ad oggi utilizzate non sono ottimali e non producono molto calore: esse hanno, cioè, una bassa capacità di trasformare l’energia magnetica in calore. Pertanto, dovendo utilizzare dosi molto alte di particelle, non si è più in grado di fare diagnostica tumorale mediante risonanza magnetica ad immagine, (la tecnica standard utilizzata per il monitoraggio dei tumori al cervello), perché il materiale magnetico interferisce. Il nostro scopo è, quindi, quello di preparare nanoparticelle che scaldano molto di più di quelle in uso, in modo da ridurne la quantità da iniettare. Non solo: queste particelle, diversamente da quelle attualmente utilizzate nella terapia, dopo il trattamento di ipertermia possono essere gradualmente eliminate in un arco temporale di due o tre mesi, così da poter monitorare la progressione della massa tumorale.
In che modo si possono ottenere delle nanoparticelle in grado di dissipare una grande quantità di calore, al fine di ridurne la quantità da somministrare?
Per applicazioni biomediche, queste nanoparticelle magnetiche ottimali devono essere ‘superparamagnetiche’. Il paramagnetismo è una forma di magnetismo che si manifesta solo in presenza di campi magnetici: se applico un campo magnetico esterno, il materiale paramagnetico si magnetizza e si orienta con il campo applicato; quando “si toglie” il campo, la sua magnetizzazione svanisce. In altre parole, il materiale cessa di essere magnetico. Si parla invece di superparamagnetismo quando, anziché avere un materiale macroscopico, si ha a che fare con delle nanoparticelle magnetiche. In questo caso, quando si applica un campo esterno, i singoli momenti magnetici associati agli atomi che costituiscono la nanoparticella si allineano tutti nella stessa direzione del campo applicato, generando un ‘super’ momento magnetico associato alla nanoparticella. Anche nel caso del superparamagentismo, quando il campo magnetico si spegne, la magnetizzazione è come se svanisse. Per dissipare l’energia magnetica accumulata sotto forma di calore, le nanoparticelle devono essere esposte a campi magnetici alternati ad alta frequenza. Questo ci permette di eccitarle in maniera controllata, applicando il campo esterno (cioè la bobina) a una porzione ben definita del corpo, che può essere la testa nel caso del tumore al cervello, o la prostata, o altre parti del corpo a seconda di dove si trovi la massa tumorale.
Quindi la dimensione delle particelle è essenziale per avere un riscaldamento ottimale?
Sì, l’effetto del superparamagnetismo si verifica solo a determinate dimensioni nanometriche. Per nanoparticelle di ferro ossido, ad esempio, alla temperatura corporea di 37° il fenomeno di superparamagentismo si manifesta quando esse raggiungono dimensioni inferiori ai 20 nanometri. Oltre alla dimensione, si può variare la capacità termica della singola nanoparticella variandone la forma, in quanto su scale nanometriche gli effetti di superficie sono fondamentali e influenzano anche la risposta magnetica. Questo succede perché tanto più piccolo sarà un corpo, quanto più grande sarà la sua porzione esposta rispetto a quella non esposta (aumenta il rapporto superficie/volume) e il contributo degli atomi alla superficie diventerà fondamentale. Mediante studi teorici, è stato anche predetto che per nanoparticelle sferiche – che hanno una curvatura della superficie maggiore rispetto alle particelle con una forma piatta – i momenti magnetici tendono a essere più disordinati e quindi a dare un minor contributo alla magnetizzazione totale del sistema. In particolare, con i nostri studi abbiamo dimostrato sperimentalmente come le nanoparticelle di ferro ossido a forma di cubo abbiano una capacità di dissipare calore molto più elevata di quelle sferiche. Da qui il nome del progetto, HyperCube. Ma anche la composizione delle nanoparticelle è essenziale per variare la loro capacità di generare il calore; le nanoparticelle di ferro ossido sono quelle già utilizzate in clinica. Se però introduciamo elementi tossici nella composizione, come il cobalto, controllando il processo di degradazione delle nanoparticelle nell’ambiente tumorale, si può combinare l’ipertermia magnetica prodotta dalle nanoparticelle con l’azione citotossica dovuta al lento rilascio di ioni tossici sulla massa tumorale. In questo caso, l’azione degli ioni cobalto ricorda quella di alcuni chemioterapici metallici usati in clinica. Sulle superfici delle nanoparticelle cubiche, sviluppiamo inoltre dei rivestimenti intelligenti, che ci consentono di potenziare la loro funzionalità.
Cosa sono questi rivestimenti intelligenti e in che modo potenziano le attività dei nanocubi?
In questa procedura, della quale abbiamo ottenuto un brevetto e diverse pubblicazioni scientifiche, sintetizziamo direttamente sulla superficie dei nanocubi di ferro ossido un polimero che ha caratteristiche termo-responsive: si tratta, cioè, di un polimero che a temperatura corporea ( 37°C) è solubile in acqua (forma cioè dei ponti a idrogeno con l’acqua in cui è immerso). In questa configurazione, possiamo caricare un farmaco chemioterapico (come ad esempio la doxorubicina già usato in clinica) nelle maglie del polimero. Quando poi aumentiamo la temperatura, i legami a idrogeno tra il polimero e l’acqua si rompono. Perciò il polimero, che fino ai 37°C era solubile in acqua, a temperature più alte diventa idrofobico e si contrae, rilasciando il farmaco che aveva intrappolato tra le maglie. In tal modo, possiamo sfruttare il calore generato dalle nanoparticelle in ipertermia magnetica, per far contrarre il polimero e rilasciare il farmaco. L’idea è cioè quella di combinare gli effetti del calore con la chemioterapia intelligente, in quanto il calore aumenta la diffusione del farmaco. In tal modo, possiamo usare dosi molto più basse di farmaco, perché riusciamo ad avere un effetto più mirato. In studi preclinici infatti, abbiamo osservato che la combinazione delle due terapie (quella chemioterapica mirata e l’ipertermia) è quella che uccide maggiormente le cellule. Inoltre, queste nanoparticelle possono essere eliminate dall’organismo: con la risonanza magnetica di immagine abbiamo visto che, attraverso i reni, l’organismo le espelle nel giro di poche settimane, un arco temporale relativamente breve che ci consente di ripetere più volte il trattamento e il monitoraggio del tumore.
Le particelle utilizzate oggi in questo genere di terapia non consentono di effettuare il monitoraggio e di ripetere il trattamento?
Attualmente, le terapie si basano sull’utilizzo di nanoparticelle magnetiche ricoperte da uno strato di composto inorganico altamente stabile, a base di silicio, proprio per poter effettuare il trattamento di ipertermia anche a distanza di mesi. Tuttavia, la presenza di nanoparticelle interferisce con il monitoraggio del tumore, eseguito per mezzo della risonanza magnetica di immagine, e richiede l’utilizzo di altre tecniche diagnostiche di immagine, come la PET, di cui non tutti gli ospedali dispongono.
Il progetto Icaro ha l’obiettivo di combinare l’ipertermia magnetica con la chemioterapia intelligente. Avete, in seguito, sperimentato altre combinazioni terapeutiche promettenti?
La nuova idea proposta, sempre all’interno del progetto Icaro, è quella di combinare l’ipertermia magnetica con la radioterapia interna. Per questo motivo stiamo sviluppando nuove eterostrutture che includano, oltre alla nanoparticella magnetica, anche quella di semiconduttore, su cui viene depositato il radioisotopo necessario per effettuare la radioterapia. Ad esempio, un radioisotopo del rame, il rame-64, emette radiazioni che danneggiano le cellule malate. Per introdurre gli ioni di radioisotopi sulla nanoparticella di semiconduttore, sfruttiamo reazioni di scambio cationico.
Come avviene questo scambio di cationi?
Tali reazioni consistono nel sostituire i cationi (atomi carichi positivamente) dei semiconduttori con quelli del radioisotopo, tenendo invariata la struttura del nanocristallo di semiconduttori. Lo scambio dei cationi avviene tramite un processo di miscelamento delle particelle, piuttosto semplice e veloce. Inoltre, con una bassa dose di particelle possiamo ottenere un’alta resa di radiomarcatura e quindi una capacità radioterapeutica molto elevata.
Quali sono i vantaggi di questi protocolli?
Sebbene tutto questo appaia complicato, in realtà i nostri protocolli sono molto semplici: si tratta, infatti, di mescolare la soluzione di radioisotopo con quella di nanoparticelle di semiconduttore e usarle direttamente. Una semplificazione fondamentale, perché il medico, che ha competenze molto specifiche ma lontane da quelle di chi sviluppa questi oggetti, è in grado di mescolare i due prodotti e poi iniettarli. In tal modo, si facilita la traslazione di queste nuove nanotecnologie alla fase clinica. Inoltre, con questi protocolli si velocizzano le procedure di radiomarcatura, un aspetto importante per radioisotopi come il rame-64, la cui radioattività si dimezza ogni dieci ore. Se seguissi un processo più lento (come quello di sintesi in laboratorio), il tempo di preparazione sarebbe più lungo e di conseguenza otterrei un prodotto finale con una radioattività molto bassa e quindi poco efficiente. C’è poi un altro vantaggio. A seconda di come avviene lo scambio cationico tramite miscelamento, le particelle del semiconduttore possono mantenere o acquisire la capacità di scaldarsi sotto illuminazione laser. In questo caso, la particella di semiconduttore non solo serve per fare radioterapia, ma è anche in grado di assorbire la radiazione proveniente da un’ampia zona dello spettro e trasformare l’energia assorbita in calore. In altri termini, anziché utilizzare l’ipertermia magnetica, tale per cui la particella trasforma l’energia magnetica in calore, qui si sfrutta la caratteristica fototermica, cioè l’esposizione ad una luce infrarossa al fine di produrre calore. Tuttavia, le radiazioni infrarosse sono molto meno penetranti dei campi magnetici alternati, quindi la fototermia è applicabile solo a tumori superficiali (come i tumori della pelle). Su alcuni materiali del progetto riusciamo a combinare, ipertermia, fototermia e radiomarcatura.
In che modo li avete combinati?
Abbiamo sviluppato diversi sistemi, tra cui una eterostruttura di natura totalmente inorganica, che include una particella di ferro ossido per l’ipertermia magnetica e una di rame solfuro, che è in grado di catturare il radioisotopo per la radiomarcatura con scambio cationico ed è anche sfruttabile in fototermia. Un altro esempio di eterostruttura inorganica sviluppata, consiste in catene di nanocubi di ferro ossido, rivestite da uno strato poroso di silice e nei cui pori abbiamo cresciuto un semiconduttore; quest’ultimo lo abbiamo usato come materiale su cui catturare il radioisotopo mediante scambio cationico. In questo modo, possiamo combinare l’ipertermia magnetica, per effetto dei nanocubi e la radioterapia interna, per effetto del radioisotopo. Il semiconduttore, che in partenza non aveva proprietà fototermiche, dopo lo scambio cationico, acquista la capacità di produrre calore per assorbimento di energia luminosa infrarossa Con questa eterostruttura possiamo combinare l’ipertermia magnetica, la fototerapia e la radioterapia.
Su quali tipologie di tumore vi focalizzate?
I modelli di tumore su cui ci focalizziamo in modo particolare, sono tre: quello ovarico – per il quale abbiamo una collaborazione con l’Istituto Nazionale dei Tumori – che risulta un tumore localizzato; il glioblastoma multiforme, un tumore al cervello molto aggressivo, su cui risulta facile applicare un campo magnetico localizzato, che coinvolga solo la testa e non il resto del corpo; e poi tumori epiteliali, anche questi localizzati, su cui valutiamo l’ipertermia magentica e la fototermia.
Come ottenete i campioni di cellule, per effettuare gli studi clinici?
Abbiamo più di una collaborazione con reparti oncologici, come il gruppo della Prof.ssa Matilde Todaro e del Prof. Giorgio Stassi a Palermo, o il gruppo tedesco del Prof. Joerge Bartsch a Marburg, che ci invia campioni di cellule tumorali recuperate da biopsie di paziente. Da poche cellule, siamo in grado di rigenerare il tumore e osservare gli effetti delle particelle non solo sulla massa tumorale, ma su delle particolari cellule – cellule staminali cancerogene – che sono le più dure da combattere, in quanto resistono a molti più stress, anche al calore. Benché, dopo il trattamento, la popolazione tumorale si riduca a pochissime cellule, ne bastano poche di loro per poter ricominciare la formazione del tumore.
State studiando un metodo per debellare queste cellule staminali cancerogene?
Sì e abbiamo constatato che la sola ipertermia magnetica non è sufficiente, perché lo stress termico che queste cellule subiscono è in grado di indebolirle, ma non di ucciderle. Se però combiniamo la terapia di ipertermia magnetica con la chemioterapia mirata, queste cellule vengono indebolite dallo stress termico e subiscono maggiormente la tossicità del farmaco, per cui vengono eliminate. Inoltre, dato che la situazione cambia da paziente a paziente, possiamo pensare di personalizzare il trattamento combinato, rendendolo quindi più mirato ed efficace. Abbiamo infatti osservato che, in alcuni casi, le cellule staminali cancerogene non rispondevano a un determinato farmaco: esse lo assorbivano a seguito dello stress termico, ma poi lo rigettavano. In tal caso, era necessario l’utilizzo di un altro farmaco, personalizzando il trattamento.
Anche i tempi sono molto importanti. Quanto bisogna attendere, per osservare l’effetto della terapia combinata personalizzata?
In laboratorio, per valutare la giusta combinazione terapeutica ipertermia-farmaco, abbiamo bisogno di un tempo di attesa di 5-8 giorni. Dopo questo intervallo di tempo, è necessario monitorare la situazione, per capire se ripetere o meno la terapia. Se sopravvivono anche pochissime cellule, queste sono sicuramente cellule staminali cancerogene residue, che restano in attesa che cessi qualunque tipo di stress attorno, per poi iniziare a riprodursi. Un effetto osservabile, appunto, dopo 5-8 giorni. In tal caso la terapia deve essere ridisegnata con un’altra combinazione farmaco-ipertermia, scegliendo un farmaco che sia più mirato.
L’ipertermia magnetica è applicabile solo su tumori primari?
Al momento sì. Ma nelle prossime proposte di progetti europei, l’obiettivo che mi porrò sarà proprio quello di capire se e come possiamo applicare l’ipertermia magnetica a tumori metastatizzanti.