Intervista ad Angelo Reggiani, coordinatore della linea di ricerca “D3 Validation” di IIT
Nome: Angelo
Cognome: Reggiani
Luogo di nascita: Torino
Ruolo: Ricercatore Senior, PI D3 Validation
Di cosa si occupa il tuo team di ricerca? Noi ci occupiamo di validare target biologici con particolare attenzione al sistema nervoso centrale, in prospettiva di collaborare con altri team che si occupano della realizzazione di molecole. Per target biologici intendo elementi cardine nello sviluppo di una certa malattia, che saranno bersaglio di futuri farmaci per ottenere la maggior efficacia terapeutica.
E nel caso del paper sul Covid da poco pubblicato? In questo caso il target biologico era una porzione di ACE2 (enzima coinvolto nel controllo della pressione) ovvero il dominio proteico che funziona da sito di legame per la proteina virale spike. Nello studio abbiamo sviluppato un aptamero, una molecola biologica composta da Dna e abbiamo lavorato al fine non tanto di bloccare ACE2, quanto di mascherare solo la porzione di ACE2 coinvolta nell’azione del virus.
Pensavi di fare questo mestiere da piccolo? Sì, decisamente. Da piccolo volevo trovare nuove medicine per curare le persone e quindi dopo il liceo ho optato per chimica farmaceutica.
Quella volta in cui avresti voluto mollare tutto e fare altro: Ce ne sono state parecchie, altro che. In generale fare ricerca è faticoso, il numero di insuccessi è senz’altro superiore al numero di successi nella carriera di ognuno di noi. Inoltre, per chi come fa ricerca in ambito farmaceutico bisogna considerare che i risultati del proprio lavoro possono arrivare anche dopo 10 anni, quindi una vera e propria gratifica se arriva, arriva dopo molto tempo e questo può essere scoraggiante. Quando lavoravo in azienda, avevamo sviluppato una molecola molto potente per controllare il dolore neuropatico e sembrava un successo. C’era molto interesse, investimenti e le cose sembravano andare per il meglio. Tuttavia, arrivati allo step di sintesi industriale di quella molecola scoprimmo che si creavano delle tracce di una sostanza cancerogena come sottoprodotto del tutto imprevedibile. Quindi tutto il nostro lavoro e la speranza di essere utili concretamente come volevo da piccolo, sono crollate. In sintesi, per fare il nostro lavoro è necessario avere molta passione.
“Publish or perish”. Quanto influenza le tue giornate e le tue scelte lavorative la pressione della pubblicazione? Io vengo da un’esperienza lavorativa trentennale in azienda farmaceutica dove la pubblicazione non è così sentita come trovare potenziali farmaci. Passare da questo mondo a quello della ricerca di base ha sconvolto la mia opinione rispetto alle pubblicazioni e alla loro importanza. Detto questo, il mio vissuto continua, per fortuna, ad influenzare le mie scelte e i miei ragionamenti, dunque non sono tra i ricercatori che vivono per pubblicare.
Quando hai capito che stavi andando nel verso giusto? Non c’è stata una vera e propria epifania, ma ho realizzato che le cose andavano bene specialmente quando sono aumentate le responsabilità che per me significa anche avere le possibilità e gli strumenti per mettere in pratica le mie idee, l’aspetto più importante, e poi i risultati fortunatamente sono arrivati.
Qual è il tuo prossimo obiettivo? Come accennavamo prima, da poco ho pubblicato un paper con Paolo Ciana, Università degli Studi di Milano e Vincenzo Lionetti, Scuola Superiore Sant’Anna sulla rivista “Pharmacological Research”. Si tratta di uno studio che propone un modello terapeutico rivoluzionario per interrompere il progressivo avanzamento dell’infezione. Infatti anziché cercare di eliminare il virus, ci siamo preoccupati di mascherare la porta di ingresso sulle cellule bersaglio. In questo modo il nostro approccio dovrebbe mantenere efficacia anche in presenza di qualsiasi variante di Sars-CoV-2 (le mutazioni sono sul virus e non su ACE2). Il prossimo obiettivo è capire se ci sono aziende farmaceutiche oppure investitori interessate a finanziare il prosièguo di questa ricerca o addirittura a prendere in licenza il nostro brevetto per svilupparlo loro stessi magari con la nostra consulenza.
Qual è l’aspetto più difficile del tuo mestiere? Sapere solo dopo molto tempo se l’idea a cui abbiamo lavorato e in cui abbiamo creduto ha raggiunto risultati concreti e utili. Si può dire che noi facciamo una scommessa validata dalla teoria che già conosciamo e dagli studi già pubblicati, ma il passaggio al risultato finale non è mai lineare.
Il ricercatore senior si deve curare anche di molti aspetti burocratici come condizione necessaria. Apparentemente è un aspetto che difficilmente si concilia con l’attività di ricerca. Come la vivi? Sono passaggi che certamente stonano con quello che è l’anima del mio lavoro, ma sono altrettanto necessari e ormai io mi sono abituato. Inoltre, se consideriamo aspetti burocratici anche la parte di valutazione dei membri del proprio team, credo sia un passaggio da fare con molta attenzione e doveroso nei confronti di chi lavora al tuo fianco alla realizzazione delle tue idee. Fare ricerca è senz’altro una questione di squadra e la squadra va supportata.
Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto fa oggi? Mi piacerebbe soffermarmi su come dovrebbero essere investiti i fondi nel mondo della ricerca, piuttosto su chi dovrebbe investire. Non sempre gli investimenti sono oculati e questo porta a vanificare il gesto.
Si parla abbastanza di scienza al di fuori dei laboratori e del mondo accademico? Adesso se ne parla moltissimo. Mi è capitato di parlare di scienza anche in fila in banca. Senz’altro l’attuale condizione sanitaria in cui si trova tutto il Mondo ha acceso dei fari sulla Ricerca rendendola visibili agli occhi di molti e molte che non l’avevano mai considerata. Nel bene e nel male.
Da chi hai ricevuto l’insegnamento più importante durante il tuo cammino? Devo dire che ho tratto insegnamenti importanti per il mio lavoro da diverse persone, così come mi piace pensare che tantissimi studenti e studentesse, dottorandi e dottorande abbiano imparato da me. Riconosco al ruolo del capo una grande responsabilità nella formazione dei giovani, non solo dal punto di vista strettamente dell’esito degli esperimenti.
Cosa diresti oggi al giovane te che termina il suo dottorato: Consiglierei di andare all’estero, come poi ho fatto. Quando vinsi la borsa di studio per andare al Medical Center di Houston (USA) ero uno dei pochi a partire e sono convinto che aver preso quella decisione abbia segnato in positivo la mia vita da ricercatore. Andare all’estero, ancor più ai miei tempi in cui le comunicazioni con casa erano difficili, ti mette davanti all’obbligo di conoscere nuove persone e nuovi modi di lavorare. Esperienze come questa ti arricchiscono culturalmente ma anche a livello di flessibilità e di adattabilità. Ora che le opportunità sono maggiori, consiglierei di ambire ad un centro di ricerca specifico, a un laboratorio preciso all’estero, dove poter crescere.
Puoi migliorare un aspetto della ricerca in generale. Quale scegli? In Italia, l’assegnazione dei fondi.