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PI Profiles: Monica Gori

Intervista a Monica Gori, coordinatrice della linea di ricerca “Unit for Visually Impaired people” di IIT

Nome: MonicaCognome: GoriLuogo di nascita: Arezzo (Italia)Ruolo: PI, Unit for Visually Impaired peopleDi cosa si occupa il tuo team di ricerca?Il mio team U-VIP porta avanti un lavoro straordinario che si colloca a metà strada fra la scienza e la tecnologia, focalizzato sullo studio dello sviluppo percettivo e di tecnologie multisensoriali applicabili a riabilitazione, istruzione e gaming. Negli ultimi vent’anni ho approfondito le neuroscienze sensoriali umane, con particolare attenzione alle abilità multisensoriali in bambini e adulti con e senza disabilità. U-VIP è stato inaugurato nel 2015: utilizziamo tecniche neuroscientifiche all’avanguardia quali psicofisica, modelli computazionale e registrazioni elettrofisiologiche, applicando i risultati scientifici alla formulazione di nuove soluzioni tecnologiche multisensoriali. La ricerca del team che dirigo si concentra sui temi più importanti in materia di interazione sensoriale, percezione multisensoriale, disturbi dell’apprendimento, navigazione, sviluppo infantile, riorganizzazione corticale, plasticità corticale, percezione spazio-temporale. Negli ultimi tempi l’ambito in cui agiamo si è ampliato per includere percezione multisensoriale nell’infanzia, sviluppo di tecnologie riabilitative multisensoriali e di supporto per l’intervento precoce, disturbi psicopatologici e del sonno. Per raggiungere tutti questi obiettivi, il nostro team si compone per metà da laureati in psicologia e per metà da laureati in ingegneria. Sul nostro sito web https://www.iit.it/web/unit-for-visually-impaired-people sono disponibili maggiori informazioni sugli straordinari ricercatori e ricercatrici che lavorano con me tutti i giorni.

Team Lab: Monica Gori, Alessia Tonelli, Alice Bollini, Carolina Tammurello, Chiara Martolini, Claudio Campus, Davide Esposito, Giorgia Bertonati, Giulia Cappagli, Helene Vitali, Lucia Schiatti, Luigi Cuturi, Maria Casado

Era questo il lavoro che avresti voluto fare da piccola?Non esattamente. Da piccola pensavo che la mia missione nella vita fosse aiutare gli altri, ma non sapevo come avrei potuto farlo. Credo di aver studiato psicologia proprio per questo motivo. All’università mi sono interessata ai meccanismi di funzionamento del cervello, e durante la tesi di laurea magistrale ho iniziato a fare ricerca sulle neuroscienze sensoriali umane con il Professor David Burr al CNR di Pisa. Ma occuparmi esclusivamente della scienza di base non mi bastava, così quando ho dovuto decidere per il dottorato ho realizzato che mi sarebbe piaciuto applicare queste conoscenze di base e ho optato per un dottorato di ricerca in ingegneria robotica.Quella volta in cui hai desiderato abbandonare tutto e dedicarti ad altro: Non mi è mai capitato, ma se dovesse succedere vorrei fare l’artista. Dipingo da sempre; i miei genitori sono artisti e indubbiamente l’arte farà sempre parte di me. Tutti i miei dipinti sono multisensoriali (sotto alcuni esempi) con superfici tattili, che si prestano all’esplorazione anche da parte dei non vedenti. In un certo modo, anche la mia arte abbatte le barriere.


“Publish or perish”. In che modo la pressione della pubblicazione influenza le tue giornate e le tue scelte professionali?La pressione c’è, è indubbio. Ad ogni modo, lavorare con persone con disabilità porta a valutare non solo l’impatto scientifico, ma anche quello applicativo e sociale. Cerco di combinare i risultati scientifici e applicativi e di trasferire al mio team di ricerca l’importanza di entrambi gli aspetti. Durante il primo anno di dottorato, gli studenti approfondiscono gli aspetti neuroscientifici di base della percezione multisensoriale, e negli anni successivi iniziano a spostarsi verso applicazioni più tecnologiche. Tutte le applicazioni che sviluppiamo hanno un esito sociale, con l’obiettivo finale di migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, in particolare dei bambini con disabilità visive.Quando hai capito che stavi andando nella giusta direzione?Quando ho ricevuto la prima e-mail da un genitore di un bambino con disabilità che mi ringraziava per quello che facciamo. Quando lavoravo solo sulla percezione visiva senza applicarla, avevo l’impressione di non dare niente in cambio alle persone. Da quando mi dedico ad applicazioni in grado di aiutare, sento che sto contribuendo a un importante cambiamento. I nostri risultati scientifici dimostrano che le nostre idee hanno valore, e questo mi fa capire che siamo sulla strada giusta e che stiamo già portando un cambiamento. I progetti europei che ho coordinato (ABBI, weDRAW) mi hanno fatto capire e apprezzare il fatto che l’Europa crede in noi, com’è stato confermato dal progetto ERC che ho vinto l’anno scorso, MySpace, uno dei più importanti per un ricercatore nella mia fase di carriera,.Qual è il tuo prossimo obiettivo?Nei prossimi anni amplierò il processo di validazione tecnologica fornendo valutazioni anche a livello corticale e non solo comportamentale. Mi concentrerò anche su una fascia di età inferiore, coinvolgendo partecipanti sempre più giovani e fornendo sistemi di intervento precoce. Questo lavoro è possible grazie alla vasta e preziosa rete che abbiamo instaurato con numerosi ospedali in Italia, come l’ospedale Mondino di Pavia, Chiossone e Gaslini di Genova, Nostra Famiglia di Lecco e Stella Maris di Pisa, associazioni (ad es. UIC e IRIFOR) e scuole sul territorio di Genova che collaborano con noi.Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro?Coordinare la grande mole di lavoro sia a livello organizzativo sia di raccolta dati è un aspetto sicuramente impegnativo. Ci rechiamo spesso in diversi ospedali in Italia; allo stesso tempo, ci occupiamo di sviluppo tecnologico e di ricerca scientifica. Il mio lavoro prevede anche la gestione delle trasferte e degli aspetti amministrativi e questo richiede un’eccellente organizzazione per evitare la frustrazione del personale in laboratorio e garantire risultati ottimali. In tutto questo, non dobbiamo dimenticare il “lato umano”: ad esempio, mi trovo spesso a rassicurare i ricercatori e le ricercatrici del mio gruppo in merito allo sforzo profuso. Il completamento di un progetto scientifico richiede molto rigore e motivazione. Quando si inizia un nuovo esperimento, l’entusiasmo è alle stelle e la curiosità di capire se l’idea funziona è tanta. Quando si è prossimi al completamento di una ricerca, dopo averci dedicato uno o due anni, non si vede l’ora di chiuderla. È proprio in questo momento che il ricercatore deve tenere duro senza demotivarsi; stare vicina al gruppo in questa ultima fase è la cosa più delicata.I ricercatori senior devono necessariamente gestire diversi aspetti burocratici. Apparentemente, questo non sembra conciliarsi al meglio con l’attività di ricerca. Cosa ne pensi? All’inizio non è stato facile, ma il coordinamento dei grandi progetti europei come ABBI (www.abbiproject.eu), weDRAW (www.wedraw.eu) e il più recente ERC MySpace (www.myspaceproject.eu) mi ha permesso di allenarmi. Devo dire che IIT supporta questo carico di lavoro e il nostro Direttore Scientifico sta lavorando per consentirci di fare più ricerca e meno lavoro burocratico. Nel mio lavoro quotidiano, cerco di coinvolgere i giovani ricercatori del mio team nelle difficoltà che incontriamo. Spero che questa esperienza li aiuti a capire come gestire tempo e lavoro, abilità cruciale per le occasioni future in cui, come mi auguro, saranno loro a guidare in prima persona i loro gruppi di ricerca.Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto avviene oggi?Ho ricevuto sette milioni di euro di finanziamenti europei per progetti che ho presentato in autonomia o con altre istituzioni europee. Nonostante abbia inviato molti progetti sulla disabilità visiva anche in Italia, non ho ricevuto alcun finanziamento e questo mi fa pensare che il nostro Paese non stia investendo abbastanza in questo campo. Mi piacerebbe vedere uno sforzo italiano di investimento nella ricerca e nella tecnologia, essenziale per bambini e adulti con disabilità visive.La gente parla di scienza fuori dai laboratori e dal mondo accademico?Mi sembra che il tema della disabilità e dell’infanzia sia ampiamente considerato, tuttavia, mi piacerebbe vedere più sessioni pratiche in cui i bambini con disabilità diverse possano giocare insieme, come nell’evento 4 Weeks 4 Inclusion che abbiamo organizzato di recente (https://www.youtube.com/watch?v=S2AR3XlrsGI ). Abbiamo sviluppato due giochi multisensoriali che hanno permesso a bambini e adulti con disabilità visive e uditive e a bambini senza disabilità di giocare insieme online contemporaneamente.Chi ti ha dato i consigli più importanti durante il tuo percorso?Vorrei citare sicuramente David Burr. Ricordo ancora quando mi disse: se vuoi continuare a essere una scienziata e a divertirti, devi pubblicare almeno un lavoro all’anno sulla tua ricerca senza limitarti ai soli aspetti di coordinamento. Ci penso spesso. Più vai avanti e più è difficile, ma continuo a farlo nonostante la fatica. Un altro consiglio importante è quello di Giulio Sandini, PI di IIT: focalizzare l’attenzione senza divagare. Meglio fare una cosa ben fatta che molte fatte meno bene. Mi sto concentrando sulla disabilità visiva nei bambini e questa è la strada che continuerò a seguire. Voglio citare anche Emanuela Mazzoni, che sta seguendo il gruppo facendo team building con noi; mi ha insegnato che per ricevere aiuto è necessario dare aiuto. Infine, mio marito Alberto Parmiggiani, una guida per me, che mi ha ricordato ogni singola volta che l’obiettivo non è raggiungere il successo, bensì produrre un cambiamento.Cosa diresti alla te giovane che sta concludendo il Dottorato di Ricerca?Vorrei poterle dare un messaggio di fiducia. Direi che i risultati di tanti sforzi saranno visibili. Allo stesso tempo, vorrei dire che è essenziale tenere a mente l’obiettivo a lungo termine, da quel momento a dieci anni, e predisporre un piano carriera per definire l’attività futura. È ciò che sto facendo con i ricercatori del mio team. Ora ancor più di prima, è fondamentale guardare al presente proiettati al futuro.Per ricercatori e ricercatrici è essenziale lavorare in Paesi diversi?Sì, credo che lo sia. Se non è possibile viaggiare, è fondamentale coltivare collaborazioni internazionali. La scienza è internazionale e dobbiamo fare networking con gli altri ricercatori che lavorano nel nostro stesso ambito. Ad esempio, i progetti europei a cui abbiamo partecipato ci hanno permesso di avviare molte collaborazioni ancora in essere; questi legami internazionali consentono la creazione di collaborazioni internazionali per nuovi progetti, per lavorare insieme e unire le forze per realizzare nuovi protocolli sperimentali e consentire lo scambio di ricercatori, come per il periodo di dottorato all’estero.Se potessi migliorare un aspetto della ricerca, quale sceglieresti?Vorrei dare ai giovani maggiori opportunità di realizzare le loro idee con fondi e progetti dedicati. In particolare, mi piacerebbe che ci fosse più sostegno per donne e madri, con programmi di ricerca e premi per supportarle affinché raggiungano posizioni di prestigio.

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