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Plastica: usare con cautela. Il lavoro del laboratorio Smart Materials di IIT

Covid 19 e l’allarme plastica monouso

Esci di casa per andare al supermercato. Parcheggi, scendi dalla macchina e indossi i guanti in lattice per spingere protetto il carrello fino all’ingresso, ma anche per schiacciare il pulsante dell’ascensore, toccare il corrimano della scalamobile, insomma per non entrare in contatto diretto con superfici potenzialmente infette. Arrivi all’ingresso del supermercato e vieni invitato ad indossare dei sacchetti di plastica o altri guanti di plastica, sui guanti di prima. Questo è un esempio, ma sono svariati i luoghi pubblici tra negozi, parrucchieri ed estetisti, il cui accesso in questo periodo è contingentato all’utilizzo di dispositivi di protezione in plastica usa e getta. Non è l’emergenza del momento, è vero, ma è l’emergenza che fino a poco tempo fa caratterizzava, insieme ad altre tematiche legate all’ambiente e ai cambienti climatici, i dibattiti nei più importanti luoghi della politica. Fra coloro che hanno bene in mente il problema e si interessano ormai da anni alla tematica plastica, cercando soluzioni alternative tra i nuovi materiali, c’è Athanassia Athanassiou, Direttrice della linea di ricerca Smart Materials, dell’Istituto Italiano di Tecnologia. “Paradossalmente stiamo assistendo ad una situazione che avevamo imparato a scoraggiare – racconta Athanassia Athanassiou – l’utilizzo monouso, di un materiale in grado di sopravvivere per anni”.Nel momento del bisogno, il materiale più testato, efficiente e reperibile in grandi quantità ad un prezzo competititivo sul mercato, è immutabilmente la plastica. Possiamo dire che ancora una volta la plastica ci ha fregati?È proprio il caso di dirlo! Dopo una prima fase in cui era difficile reperire dispositivi di protezioni individuale di qualunque materiale, sono comparsi guanti e mascherine in plastica, mentre quelli realizzati in bioplastiche non erano e non sono ancora reperibili. Questo episodio, rappresenta bene quello che succede anche al di fuori del periodo di crisi: le bioplastiche non sono prodotte in numero sufficiente tanto da costituire un settore forte del mercato e quindi una componente su cui poter fare riferimento con la stessa facilità con cui facciamo riferimento sulla plastica.In IIT il suo team si occupa di studiare nuovi materiali biodegradabili con caratteristiche meccaniche simili a quelle delle plastica, partendo dagli scarti delle cartiere, di frutta e verdura, e da poco tempo anche dal prodotto intero, l’invenduto dei mercati ortofrutticoli, nell’ottica dell’economia circolare. Qual è il filone di ricerca più promettente oggi per la produzione di bioplastiche su scala industriale?A mio avviso ci sono due filoni di ricerca su cui varrebbe seriamente la pena di concentrarsi. Da una parte la produzione di bioplastiche con l’aggiunta di fillers naturali, nano fillers o di materiali performanti come il grafene che garantiscono alle bioplastiche maggiori proprietà strutturali e fisiche, tra cui la resistenza termica, l’impermeabilità ad ossigeno e vapore acqueo, e la possibilità di essere più facilmente compostabili, non solo industrialmente, ma anche in ambienti meno controllati. Parallelamente, l’altro campo promettente è quello che mira alla sintesi di nuovi biomateriali basandosi il più possibile su residui di lavorazione per esempio agroalimentari, facendo un composto di polimeri naturali in pieno spirito di economia circolare. Più si riuscirà ad ottimizare le tecniche necessarie a produrre questo tipo di materiale, più sarà possibile reimmettere i residui nel processo di produzione fino a raggiungere una percentuale, ad oggi utopica, del 100% e chiudere il cerchio.In questo secondo caso, oltre al mondo della ricerca, si rende necessario l’impegno anche da parte dei consumatoriIl comportamento del singolo consumatore è alla base di questa rivoluzione. Dovrebbero esistere pubblicità e indicazioni che ci invitano ad usare la plastica con cautela, proprio come si fa con i materiali pericolosi. Poi nel caso specifico delle bioplastiche realizzate dagli scarti, i consumatori fanno decisamente la differenza perché parte da loro la scelta di acquistare un prodotto piuttosto che un altro, per esempio vasi per le piante non perfettamente lisci o confezioni di frutta e verdura non perfettamente trasparenti…Secondo la vostra esperienza c’è interesse da parte delle aziende ad investire in questo settore della ricerca?Da parte di alcune aziende c’è più interesse di quanto si pensi, anzi attualmente le aziende che si stanno aprendo al mondo delle bioplastiche sono consapevoli di andare incontro a spese e non necessariamente ad immediati guadagni, ma lo fanno spinti da una forte coscienza sociale e ambientale. Tuttavia, la nostra esperienza parla chiaro, l’entusiasmo degli imprenditori più innovativi che investono nei laboratori di ricerca e nella modificazione della propria filiera produttiva, si scontra con un mercato quasi inesistente e con una scarsa disponibilità della materia prima che vanifica i loro sforzi. È fondamentale che si crei una massa critica affinché le aziende che vogliono convertirsi o specializzarsi nelle bioplastiche trovino le materie prime, siano tutelate e incoraggiate a farlo. Le scelte delle aziende vanno a braccetto con la ricerca, perché se le multinazionali sono spinte a immettere più bioplastiche sul mercato anche la ricerca, di riflesso, ne trae nuova nuova spinta per poter sperimentare materiali sempre più performanti.Dopo gli spropositati imballaggi dei prodoti alimentari, i sacchetti di plastica nei supermercati, ora è il momento di guanti e mascherine usa e getta ad essere indicati tra i maggiori responsabili delle tonnellate di rifiuti prodotti in tutto il Mondo. Secondo le previsioni di Ispra, da qui alla fine del 2020 in Italia dovremo fare i conti con un quantitativo di rifiuti derivanti dall’uso di mascherine e guanti compreso tra 160mila e 440mila tonnellate. Con l’obiettivo di alleggerire questi numeri insostenibili non solo per l’ambiente ma anche per i costi di smaltimento, quali oggetti in plastica di uso quotidiano potrebbero essere sostituiti per primi dalle bioplastiche?Fondamentalmente gli imballaggi, che hanno la richiesta di plastica più alta rispetto agli altri settori e tutti gli oggetti che hanno vita breve. Pensiamo ad esempio a quanti bicchieri e cucchiaini di plastica monouso vengono usati e buttati ogni giorno solo per la pausa caffè! Se vogliamo stilare una classifica di gravità, non sono l’hardware degli elettrodomestici o i componenti delle macchine a rappresentare il problema più grosso e immediato, perché hanno vita più lunga e in qualche caso end of life controllato.C’è grande polemica – comprensibile – per il rischio di non tornare al mare quest’estate. Le microplastiche ci aspettano, è il caso di dirlo!  La pandemia che sembrava aver risparmiato gli animali, avrà ricadute indirettamente anche su di loro?Purtroppo sì. Più consumiamo, più buttiamo. Più buttiamo rifiuti di plastica, più questi si accumulano fino ad arrivare ai corsi d’acqua e al mare. Non possiamo più fare finta di niente, non c’è più tempo e l’emergenza Covid ha reso tutto ancora più evidente. Dobbiamo prendere coscienza della necessità di cambiare passo e la scienza in questo ci potrà aiutare.

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