Intervista a Velia Siciliano, coordinatrice della linea di ricerca “Synthetic and Systems Biology for Biomedicine” di IIT
Ognuno di noi possiede al suo interno un’armata di difensori, che ci proteggono da malattie patogene o tumorali, ma che talvolta tendono purtroppo ad affaticarsi e a non agire più efficacemente. Questa armata è il nostro sistema immunitario e ce ne parla Velia Siciliano, responsabile del laboratorio Synthetic and Systems Biology for Biomedicine presso l’Istituto Italiano di Tecnologia e vincitrice di un finanziamento ERC per il progetto Synthetic T-rEx, il cui obiettivo è quello di potenziare le immunoterapie che si basano sull’utilizzo di cellule T geneticamente modificate.
Cosa sono le cellule T?
Le cellule T sono cellule del sistema immunitario, che intervengono nella nostra difesa quando siamo a contatto con agenti infettivi patogeni come i virus, o quando nel nostro corpo si sviluppano delle patologie come i tumori. In altre parole, noi abbiamo un corredo di cellule nel sistema immunitario che intervengono in determinate circostanze. Il progetto che stiamo portando avanti riguarda in particolare le cellule T CD8, una sottoclasse dei linfociti T che hanno un’attività citotossica, ovvero uccidono le cellule malate, che possono essere quelle di un tumore o le cellule infettate da virus come Hiv, Sars, Covid… Synthetic T-rEX è un approccio della biologia sintetica applicato alle cellule T, in cui cerchiamo di rendere l’azione dei linfociti T CD8 più efficace e funzionale a lungo termine.
In che modo trattate queste cellule?
In pratica, andiamo a modificare geneticamente queste cellule, integrando nel loro genoma dei circuiti di DNA che sono in grado di modificarne l’azione, al fine di renderle più resistenti all’affaticamento.
Cosa si intende per affaticamento?
È stato riconosciuto che, quando le cellule T agiscono per lungo tempo nella loro azione immunitaria (cioè, quando sono stimolate per troppo tempo da virus, o da batteri, o da cellule tumorali), esse incominciano a perdere le loro attività citotossiche. In altre parole, iniziano ad affaticarsi. Il nostro obiettivo è quindi quello di modificarle geneticamente, per renderle più resistenti a questo affaticamento, in modo tale che restino attive nelle patologie a lungo termine, come le infezioni croniche e quasi tutti i tipi di tumore.
Al momento state praticando esperimenti in vitro?
Sì, per il momento sperimentiamo in vitro, perché stiamo sviluppando una piattaforma in cui il DNA che programmiamo in laboratorio viene integrato all’interno di queste cellule. Quando poi avremo un “proof-of-principle” che risulterà funzionante, passeremo agli esperimenti in vivo con gli animali.
In che tipo di terapia può sfociare questo studio?
Questa categoria di cellule geneticamente modificate appartiene a una nuova forma di farmaci terapeutici, che si basano proprio su cellule. Non si parla del farmaco tradizionale, ovvero di pillole contenenti molecole che noi introduciamo nel nostro corpo, bensì di un medicinale costituito da cellule vive in grado di reagire e che vengono introdotte nell’organismo del paziente. Questa categoria di farmaci è già utilizzata in alcuni casi, per esempio nei trattamenti dei tumori del sangue.
Come funziona, nei casi già noti?
Al paziente affetto da leucemia viene prelevato del sangue e da questo campione vengono isolate le cellule T, che in seguito vengono modificate in laboratorio, espanse e reintrodotte nel paziente. Il nostro concetto è lo stesso. Questo tipo di terapia, che si basa sull’utilizzo dei linfociti T, richiede che le cellule provengano dal paziente, per evitare potenziali effetti collaterali dal momento che c’è una forte specificità. Tuttavia, in questo stadio di ricerca (quello degli esperimenti in vitro) le cellule T utilizzate vengono acquistate e ci permettono di realizzare sistemi universali.
Quindi, questa terapia potrebbe avere successo su tutti e su ogni tipo di tumore?
L’idea è quella di realizzare, appunto, un sistema universale, perché queste cellule possano avere la capacità di combattere tutti i tumori, da quelli del sangue a quelli solidi (es. tumore al seno, melanoma…). Oltre al trattamento dei tumori, questa nuova terapia potrebbe essere utilizzata anche nel trattamento delle infezioni croniche, in cui uno dei problemi è l’assenza di una risposta effettiva a lungo termine delle cellule del sistema immunitario, nonostante la somministrazione di medicinali di supporto. Quindi, anche per le infezioni croniche, queste terapie potranno avere una buona applicabilità.
Come è nato il progetto Biosynthetic T-rEX?
Io lavoro nel campo della biologia sintetica da molti anni. La biologia sintetica è un ramo della bioingegneria, che è ancora giovane rispetto alle altre scienze, perché ha circa vent’anni. Ho sempre voluto trovare delle applicazioni che potessero essere utili nel campo medico. Perciò, riflettendo sul mio bagaglio di esperienza maturata nel tempo, anche grazie alle molteplici conversazioni con i colleghi, ho cercato di capire quali potessero essere gli spazi di applicabilità che mi consentissero di portare in campo nuove idee. L’immunologia è uno di questi settori, per quanto sia estremamente complesso. Ho iniziato, quindi, a riflettere su cosa mancasse per avere delle risposte immunitarie efficaci, ho studiato e ho integrato le nuove conoscenze nel campo dell’immunologia al mio bagaglio di esperienza in biologia sintetica.
Quindi si tratta di un progetto multidisciplinare?
La biologia sintetica è già di per sé un campo multidisciplinare, perché unisce ingegneria e biologia: è proprio la classica applicazione bioingegneristica, dove però non si sviluppano dei dispositivi hardware, ma osserviamo la cellula come fosse un computer, che è in grado di integrare tanti input e di dare degli output. Perché è esattamente questo che fa la cellula. Cerchiamo di capirne meglio le funzionalità, anche applicando dei modelli matematici. Quindi, ho integrato una disciplina già di per sé multidisciplinare a un campo ancora diverso. In qualche modo, è come se avessi espanso questa multidisciplinarietà.