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Quando ho conosciuto “L’altra specie”. Intervista a Caterina Visco

Dialogo con la coautrice dell’ultima fatica editoriale di Roberto Cingolani

È stato pubblicato recentemente il libro “L’altra specie. Otto domande su noi e loro” edito da Il Mulino. Le domande erano poste a Cingolani da Caterina Visco. Il dialogo si è sviluppato attraverso una serie di incontri al termine dei quali è nato un libro sulla ricerca, sul futuro, che si intrecciano con la vicenda professionale di Cingolani in IIT.

Caterina Visco laureata in scienze biologiche vanta un importante curriculum come giornalista e divulgatrice scientifica. Le abbiamo chiesto di regalarci qualche riflessione dopo l’esperienza editoriale condotta con Roberto Cingolani.

Caterina come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Alessia Graziano, editor della saggistica de Il Mulino, che aveva già curato il libro scritto precedentemente da Cingolani, voleva continuare questa collaborazione realizzando un prodotto editoriale pensato per avvicinare il largo pubblico alla scienza. Da qui il mio coinvolgimento, considerando la mia attività di divulgatrice scientifica.

Conoscevi già Cingolani e l’IIT?

Conoscevo entrambi di fama, anche grazie alla mia   attività giornalistica che mi ha permesso di conoscere le attività dell’IIT come quelle di altri centri di ricerca italiani.

Una domanda è d’obbligo ritornando al libro, qual è, dopo la conversazione con Cingolani, l’altra specie?

L’altra specie è questa entità che non ha un corrispettivo biologico, un insieme di tanti “corpi” robotici, tante macchine connessi a un supercomputer che funge da “mente pensante”, che conserva e processa tutti i dati e le informazioni. Ho provato, ingenuamente, a chiedere a Roberto se era paragonabile ad uno sciame d’api, a un qualche tipo di vita collettiva. Non è così, non esiste un corrispettivo biologico e quindi è una sorta di entità con la quale non ci possiamo relazionare. Vi è alla base quel concetto che troviamo del libro di disembodiment, separazione tra corpo operante e mente che, come sostiene Cingolani, è alla base dell’altra specie.

Un termine che spesso ricorre nei commenti sul rapporto uomo robot è la stupidità della macchina. Spesso però anche l’uomo non è da meno…

La macchina è tanto stupida almeno quanto l’uomo che la costruisce e la programma. La macchina pertà è dotata di un’intelligenza che potremmo definire “funzionale”: legata al suo compito specifico che porta a termine in maniera perfetta. L’uomo risponde, invece, a comandi irrazionali che derivano dalla componente biologica che la macchina non ha. Quindi ci si deve anche intendere sull’uso dei termini. L’uomo rimarrà per sempre irrazionale. La macchina non avrà mai i nostri squilibri biologici.

Sullo sfondo della tua conversazione con Cingolani si staglia deciso il profilo dell’IIT. Che idea ti sei fatta dell’Istituto Italiano di Tecnologia?

Ho avuto l’impressione di essere in una struttura dove le cose succedono e non solo si pensano. Ciò avviene anche grazie al grande entusiasmo dei ricercatori di IIT per il loro lavoro. È la stessa impressione che ho avuto visitando lo European Space Research and Technology Centre dell’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea), a Noordwijk nei Paesi Bassi, dove ho incontrato dei giovani preparati con curricula eccellenti. In ESTEC, come in IIT, le ricerche, anche quelle inizialmente inimmaginabili, si realizzano. All’Istituto Italiano di Tecnologia mi ha colpito, tra l’altro, la dimensione temporale che viene attribuita alle ricerche, un percorso valutativo che obbliga le persone a darsi degli obiettivi molto precisi fuori dai quali la collaborazione decade. Questa organizzazione stimola l’impegno ed evita fenomeni di parassitismo ben noti.

Quando si legge di un’altra specie sorge in noi qualche preoccupazione. Ma di che cosa dobbiamo avere paura?

Dell’essere umano, della sua irrazionalità e del non investire nelle generazioni future in termini di educazione, competenza, intelligenza. È la nostra specie che con i suoi comportamenti sta mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza. La Terra tra un po’ potrà serenamente fare a meno di noi. Pensiamo al climate change, alle guerre per le risorse, all’uso sconsiderato delle tecnologie, alla messa in discussione di istituzioni di cooperazione e integrazione quali l’Unione Europea. La paura deriva dal prendere atto di vivere in un sistema che non ha saputo o voluto pensare a lungo termine accontentandosi di risultati a breve, solo apparentemente positivi.

Quanto nel nostro futuro, in quello dei giovani e del nostro Paese la ricerca e l’innovazione potranno incidere?

Dipenderà da come e quanto si deciderà di investire nella ricerca. Ci sono persone preparate e anche strutture in grado di accoglierle. Ma queste potenzialità vanno sostenute con seri interventi economici e anche costruendo un percorso culturale che nasca dalla scuola e che concepisca il tema della ricerca come una costante nei piani di studio. Questo tipo d’intervento, com’è noto, non offre risultati immediati, da qui lo scarso impegno delle diverse componenti, istituzionali, industriali, politiche, per un intervento strategico a favore della ricerca. In sintesi, vi è una diffusa tendenza ad ottenere risultati a breve. È raro se non impossibile trovare un investitore che sia conscio del fatto che non vedrà immediatamente l’esito del suo intervento. L’impegno in ricerca prevede tempi lunghi e grandi convinzioni.

 


Nell’immagine il robot R1 interagisce con una ricercatrice IIT

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