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Ricercatori senza frontiere: Pakistan

Oltre ogni barriera linguistica, per amore della ricerca

Ventinove anni dedicati ad aiutare chi è affetto da una malattia visiva ereditaria, la degenerazione maculare, un danno irreversibile per il quale ad oggi non esiste alcun tipo di trattamento.

E di cui lei stessa è vittima.

E’ così che Hafsah ha scelto per il suo percorso di dottorato il team di Monica Gori, principal investigator che coordina “Unit for Visually Impaired People” di IIT. L’idea alla base della sua tesi di PhD è stata quella di progettare dispositivi per la riabilitazione di persone affette da Degenerazione Maculare con scotoma (area cieca all’interno del campo visivo), anche detta “low vision”. In commercio esistono già decine di strumenti e dispositivi che provano ad addestrare i pazienti all’utilizzo della visione residua. L’unicità del suo lavoro però, tipico del team di Monica Gori, è stata quella di interessare altri sensi come il tatto e l’udito, insieme ovviamente alla visione residua. Da queste ricerche è nato un dispositivo, chiamato in inglese Audio Visual Thumble (AVT), piccolo e indossabile come un anello. Questo anello è dotato di un led, un cicalino e due interruttori on/off: il paziente può servirsi del led per allenamento spaziale peri-personale. Qualora non riuscisse a vederlo, a causa di low vision, si ritroverebbe con un feedback audio-tattile del dispositivo che gli permetterebbe comunque una integrazione multisensoriale per la riabilitazione.

Hafsah è nata nel nord del Pakistan, indossa l’hijab – il velo delle donne musulmane – che dice essere sua “identità e orgoglio” e ha conseguito la Laurea in Ingegneria Biomedica presso la National University of Science and Technology di Islamabad.

Hafsah come mai hai deciso di aiutare persone con la tua stessa patologia? E qual è stata la parte più difficile di questo percorso?

Sono un ingegnere biomedico con specializzazione in Ingegneria Neurale, quando ho letto del progetto di integrazione multisensoriale di Monica Gori le ho subito scritto dicendole che era esattamente in linea con il mio percorso accademico intrapreso e che il mio sogno sarebbe stato apportare un aiuto alle persone con low vision. I momenti più dolorosi sono stati certamente il dover assistere alla perdita totale e repentina della vista di molti giovani e non poter fare nulla per contrastare questa degenerazione. Avevo certamente molta paura quando ho iniziato, ma Monica mi ha indirizzata bene e mi ha permesso di collaborare con i pazienti dell’Istituto Chiossone di Genova. Ho lavorato in una condizione talmente positiva in questi tre anni che pensando adesso alle piccole paure di un tempo mi viene da sorridere.

 Posso immaginare quindi che lavorando anche con persone anziane, la lingua sia stata un ostacolo difficile da superare visto che non parli italiano e loro non parlano in inglese? E la parte più bella invece?

Si, esatto! Ho lavorato soprattutto con anziani ed è stato complicato all’inizio, per la barriera linguistica. Le persone del mio team però mi hanno aiutata continuamente, e così anche i medici e i responsabili alla riabilitazione. Tutti carinissimi. E i pazienti, nonostante la barriera, cercavano di farsi comprendere in ogni modo. Alla fine della collaborazione erano anche arrivati a chiedermi del mio hijab, di quanti ne avessi e di come fossero belli! Mi sono divertita anche, mi piaceva guardarli mentre testavano il device che stavo progettando e diventavano come bimbi piccoli con un giocattolo! Credo che questa sia stata la cosa più bella di questa esperienza!

 

Hafsah è cresciuta ad Islamabad, ma è nata in un villaggio nel Nord del Pakistan chiamato Dagai, nel Distretto di Swabi, a cui lei e la sua famiglia sono molto legati. Un paesino di 16.000 abitanti circa, con persone che “hanno ancora un animo puro, non contaminato dalla tecnologia e che apprezzano moltissimo umanità e religione. Con il 90% di abitanti istruiti”. Rivendica la libertà delle donne in Pakistan, e il loro ruolo nella società nonostante quanto si racconti invece del Nord del suo Paese.

Mi racconti di un piatto tipico di Dagai e di un piatto che ami italiano, invece?

Pizza, pansoti e tiramisù! La focaccia anche! Del Pakistan invece amo il cibo semplice e sempre fresco. Amo tutto, ma forse ti direi che non riuscirei mai a resistere al “Tandoor ki roti o bhindi”, pane appena sfornato e savoiardi con limone!

Torniamo ai tuoi 3 anni qui in Italia, cosa mi dici del gruppo con cui hai lavorato e di IIT?

Gli “UVIPers”, come li chiamo io, sono colleghi preziosi! Ero l’unica non-italiana del gruppo e mi hanno aiutata in qualunque circostanza. Dagli ordini al ristorante, traducendo l’intero menù, fino a rispondere alle chiamate personali di ordini di consegna per me o chiamare il taxi a tarda notte per rientrare a casa. Non posso che ringraziarli davvero tutti.

IIT mi ha permesso di ottenere una visibilità internazionale di alto livello. Ho apprezzato moltissimo l’ambiente interno cosmopolita e il legame stretto con alcuni dei miei colleghi, Luigi, Walter, Elena, Chiara e Maria Bianca per citarne alcuni.

 

Sogna il suo rientro in Pakistan, perché non nega che quello è l’unico paese in cui si sente veramente a casa, la sua “Home Sweet Home”, ma prima le piacerebbe spostarsi per qualche anno in un altro paese europeo alla fine del suo PhD.

Soprattutto, sogna di apportare un cambiamento sostanziale nella vita delle persone che soffrono di low vision. Anche un piccolo cambiamento.

Perché anche un piccolo cambiamento può cambiare sensibilmente la qualità della vita.

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