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Seguire le molecole all’interno della cellula

Intervista a Giuseppe Vicidomini, coordinatore della linea di ricerca “Molecular Microscopy and Spectroscopy” di IIT

Il nostro gruppo è specializzato nel rilevamento e nell’osservazione di processi bio-molecolari all’interno di sistemi viventi semplici, quali cellule, o complessi, come i tessuti. Caratteristica essenziale delle nostre osservazioni è la dinamicità, in quanto vogliamo capire come le singole bio-molecole interagiscono tra di loro e come cambiano strutturalmente nel tempo, per effettuare tutte quelle funzioni che permettono al nostro organismo di vivere. Da qui il titolo del progetto, BrightEyes (sguardo intelligente): il progetto sviluppa infatti un “occhio” puntato sulla singola bio-molecola, uno sguardo in grado di seguire la molecola spazialmente e temporalmente all’interno della cellula, cercando di ricostruirne le interazioni con tutte le altre bio-molecole che si trovano all’interno di quella stessa cellula”.

Giuseppe Vicidomini, responsabile del laboratorio di ricerca Molecular Microscopy and Spectroscopy dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, ci racconta il progetto multidisciplinare, premiato dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) e avviato un anno fa.

In che modo osservate queste molecole?

Classicamente l’osservazione dei processi d’interazione e di trasformazione di queste bio-molecole viene effettuata in vitro: la bio-molecola di interesse, viene estratta dalla cellula e inserita in un contesto artificiale, ad esempio una provetta, nella quale si cerca di ricreare un ambiente cellulare. A questo punto si osserva il comportamento della bio-molecola. Ciò che vogliamo ottenere, sono le stesse tipologie di osservazioni e analisi lasciando la molecola all’interno del sistema cellulare. Si tratta, quindi, di una osservazione più realistica, perché in vitro non si può simulare tutto ciò che avviene all’interno di una cellula. Il primo passo del progetto, ancora molto giovane, è riuscire a realizzare questi esperimenti, detti di singola-molecola (in quanto osservano la molecola “una-ad-una”) all’interno della cellula. In un secondo momento, l’esperimento verrà effettuato in un tessuto, cioè un insieme di cellule, rendendo l’osservazione ancora più veritiera, ma ancora più complessa.

Per mezzo di quale tecnica riuscite a farlo?

Ciò che facciamo per osservare le biomolecole è simile a quello che facciamo tutti i giorni per osservare ciò che ci circonda: riveliamo tramite i nostri occhi la luce che proviene, o meglio che viene riflessa, dagli oggetti. Per osservare le bio-molecole, si continua a utilizzare la luce come componente fondamentale, ma si sostituiscono gli occhi con microscopi molto sofisticati, e si usano altri stratagemmi quali la fluorescenza. Prendiamo, per esempio, una macromolecola di RNA. Questa, per sua natura, non è in grado di emettere luce. Allora si aggiungono dei marcatori di fluorescenza, cioè si attacca a quella molecola un’altra molecola in grado di emettere luce. Solitamente, se ne attaccano diverse, ognuna delle quali emette un colore ben preciso. A questo punto, illuminiamo la bio-molecola che è stata marcata e registriamo la sua risposta alla luce. Essa risponde emettendo a sua volta circa un migliaio di fotoni (particelle di luce), prima che il marcatore si spenga definitivamente. Registrando la risposta, fotone per fotone, siamo quindi in grado di seguire la biomolecola e capire in che modo stia cambiando la sua struttura.

In che modo raccogliete il segnale trasportato da questi fotoni?

Tramite dei particolari rivelatori di fotoni, detti single photon avalanche diode array, costruiti appositamente quando è nato il laboratorio. Essi sono delle matrici di sensori che non solo permettono di misurare l’intensità della luce, come quasi tutti i rivelatori di fotoni (compresa la videocamera del cellulare), ma consentono di misurare la luce a livello di singolo fotone: è possibile, cioè, misurare l’arrivo di ogni fotone sul rilevatore misurare il tempo in cui è arrivato, con una precisione dell’ordine del picosecondo (mille miliardesimi di secondo). Tali informazioni permettono di capire come cambia la struttura della molecola nel tempo e come avviene l’interazione con le altre biomolecole o con il microambiente che la circonda. Infatti, i fotoni raccolti vengono processati da algoritmi che eseguono un calcolo statistico, cioè a seconda di come essi arrivano possiamo risalire a eventuali modifiche della struttura della bio-molecola. Quindi, non solo riusciamo a seguire la molecola che si muove all’interno della cellula, ma contando e processando i fotoni possiamo ricostruire i suoi cambiamenti strutturali nel tempo, le sue interazioni con altre molecole e anche l’ambiente in cui essa si trova (per esempio, posso capire se l’ambiente sia ricco o meno di ossigeno, se vi sia un certo pH, ecc).

L’osservazione della molecola all’interno del suo sistema cellulare è molto diversa da quella in vitro?

Sì. Anche in vitro possiamo marcare le bio-molecole con sonde fluorescenti e quindi effettuare simili osservazioni al microscopio, ma all’interno della cellula si creano delle condizioni al contorno molto diverse. La ragione per cui classicamente tali esperimenti si facciano in vitro e non all’interno di una cellula, è che la misura in vitro risulta molto più semplice. La cellula, e ancor di più un tessuto, è infatti un sistema opaco, non trasparente, per cui risulta molto più difficile rivelare la luce che arriva dalla biomolecola di nostro interesse. È come se volessi scattare una foto all’interno di una stanza chiusa, posizionandomi però al di fuori di questa: chiaramente la luce dovrebbe attraversare i muri. Sostanzialmente, la difficoltà dal punto di vista ottico è proprio questa: se la luce deve attraversare delle membrane e delle altre strutture cellulari, almeno in parte viene deteriorata. Perciò, dal punto di vista della strumentazione è molto più complesso osservare la molecola in situ, anziché isolarla e portarla fuori dal sistema.

Quindi anche la risposta può essere molto diversa nei due casi?

Sì, perché la cellula è un sistema complesso non solo dal punto di vista ottico, ma anche funzionale. Anche se ricrei in parte le condizioni al contorno, mettendo in vitro non solo la bio-molecola propriamente marcata, ma anche altre bio-molecole di quella stessa cellula, non ottieni la stessa risposta. Questo perché il comportamento che assumono dentro la cellula è naturale, fisiologico, non indotto, e può differire a seconda della zona cellulare e dello stadio temporale in cui si trovano. È quindi necessario poter osservare un processo all’interno dell’ambiente cellulare, per poter veramente comprendere la funzione di una bio-molecola. È chiaro, però, che per studiare un fenomeno, sia necessario semplificarlo; quindi, osservazioni in vitro e in-situ devono andare di pari passo e “aiutarsi” reciprocamente, perché si possa comprendere fino in fondo un processo complesso, quale ad esempio la traduzione dello RNA per la sintesi proteica.

Che tipo di molecole vengono utilizzate come marcatori?

Principalmente vengono utilizzate molecole organiche fluorescenti, in grado quindi di riemettere luce una volta illuminate. Un aspetto importante delle tecniche di osservazione che utilizziamo è che, per poter ricostruire i cambiamenti strutturali della molecola in esame, occorre raccogliere molti fotoni. Tuttavia, i marcatori hanno tipicamente un ciclo di vita molto limitato: dopo un certo tempo e un certo utilizzo, si foto-danneggiano e cessano di emettere luce. Per questo sono necessarie molecole particolari, maggiormente fotostabili. Negli anni sono quindi stati sviluppati dei marcatori molto robusti, in grado di emettere anche diverse decine di migliaia di fotoni prima di deteriorarsi. Un’ alternativa ai marcatori organici sono i marcatori inorganici, in particolare dei cristalli sotto forma di nano strutture, come i quantum dots (punti quantici). Tuttavia, non è semplice utilizzare una nano struttura di questo tipo per marcare la bio-molecola di interesse, specialmente quando questa marcatura deve avvenire all’interno di una cellula vivente. Per quanto riguarda i marcatori organici, invece, ci sono dei protocolli molto più sviluppati e inoltre sono molto meno invasivi. L’importante, in ogni caso, è che la marcatura della molecola non alteri la sua funzione.

I processi con cui vengono marcate le molecole sono chimici?

Alcuni processi sì: esistono, per esempio, le immunomarcature, che si basano sulle affinità tra il marcatore e la molecola che si vuole studiare, per cui si crea un legame chimico. Ci sono però altri metodi, che consistono nel sollecitare la cellula a esprimere essa stessa un marcatore fluorescente: in particolare, si modifica geneticamente la cellula, in modo che questa esprima una proteina fluorescente.

Voi usate un tipo di marcatura in particolare?

In questa prima fase stiamo cercando di utilizzare delle marcature organiche. Nella seconda fase, cercheremo di fare esprimere il fluoroforo alla stessa molecola di interesse. La marcatura organica, diversamente dall’immunomarcatura, permette di ottenere dei fluorofori molto più brillanti e resistenti, ma comporta lo svantaggio di doverli inserire dall’esterno. Come in ogni cosa, ci sono dei pro e dei contro. Al momento, infatti, non abbiamo posto alcun limite sul tipo di marcatura da utilizzare, e la strumentazione che stiamo sviluppando si adatta sia ad una marcatura organica, sia all’espressione di un fluoroforo da parte della cellula.

A quali nuove applicazioni può portare questo studio?

Fondamentalmente, il nostro obiettivo è capire i meccanismi di base di tutte queste bio-molecole, anche perché quasi tutte le malattie sono dovute a un malfunzionamento di questi meccanismi o processi biomolecolari. Perciò, comprendere tali processi nel dettaglio e capire come questi vengano alterati nel momento in cui ci sia una malattia in corso, diventa fondamentale per realizzare, per esempio, dei farmaci ad hoc.

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