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Speciale – 2003: si studiano i maggiori centri di ricerca mondiali e nasce IIT

Intervista con il Professor Vittorio Grilli Presidente Emerito di IIT, Chairman Corporate and Investment Banking per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa (EMEA) e Chairman per l’Italia di JP Morgan

 

Professore, come nasce l’idea di creare un nuovo istituto di ricerca in Italia?

L’idea venne elaborata in più stadi. Determinante fu il ruolo dell’allora ministro Tremonti, uomo dotato di una mentalità innovativa, aperto a cambiamenti forti. Io in quel momento ricoprivo la carica di Ragioniere dello Stato e negli incontri con i Rettori delle nostre università recepivo le difficoltà nelle quali il mondo della ricerca si dibatteva non tanto nei contenuti ma per gli aspetti finanziari. Queste istituzioni seguivano modelli organizzativi spesso mutuati dagli apparati burocratici, appesantiti da tutto ciò che non era ricerca. Le analisi di questi processi ci portarono alla conclusione, dopo un lungo dibattito, di introdurre un elemento di novità nel sistema. L’idea era quella di contribuire all’arricchimento delle organizzazioni preesistenti e non di creare un’alternativa. Ci era chiaro che nel mondo della ricerca italiano l’applicazione delle tecnologie al mondo delle imprese era debole rispetto ad altri sistemi internazionali. Quindi era auspicabile creare un polo di ricerca che riuscisse a coniugare gli esiti dei disegni scientifici con il trasferimento tecnologico e che disponesse di una struttura organizzativa agile dove gli investimenti finanziari fossero veicolati prioritariamente verso la ricerca. Per gestire questo processo serviva, prioritariamente, mettere a punto un sistema di governance adeguato. Non inventammo nulla perché andammo a studiare quali erano le best pratics mondiali in ambito della ricerca e a conoscere come era organizzato il loro lavoro. Lo schema operativo di base per la costituzione di un centro di ricerca si fondava su di una nuova governance, sull’utilizzo dei finanziamenti focalizzato sulla ricerca, sul trasferimento tecnologico. Questo nuovo modello poteva attivare una reazione competitiva del sistema e un’opportunità d’interazione innovativa con gli altri centri di ricerca.

L’Istituto venne finanziato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si trattò di una decisione innovativa nel panorama della ricerca pubblica italiana, storicamente sostenuta dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università. Quali furono i motivi di questa scelta?

L’idea era nata al Ministero delle Finanze e di conseguenza era questa istituzione che seguiva l’iter per la costituzione del nuovo ente e che se ne assumeva l’onere del finanziamento stanziando  fondi con un intervento aggiuntivo e quindi non sottraendo risorse dal ministero della Ricerca. Il sistema della ricerca universitaria continuava ad essere gestito con risorse invariate o incrementate. Il finanziamento della nuova entità aggiungeva quindi risorse all’apparato della ricerca italiana. Al Ministero delle Finanze ci ponemmo anche l’obiettivo di realizzare, partendo da zero, un progetto che fosse assolutamente innovativo rispetto alle esperienze fino ad ora conosciute. Per trovare soluzioni adeguate sia per la governance sia per i criteri di finanziamento abbiamo studiato diversi modelli per oltre un anno. Il profilo dell’organizzazione infine individuato vedeva tra l’altro nella definizione dell’apporto finanziario e nel controllo del suo utilizzo un momento centrale. Si trattava di una modalità innovativa per il procedere di un ente di ricerca e di conseguenza la dipendenza dal Ministero delle Finanze era essenziale.

Superata la fase progettuale inizia il percorso pratico per la costruzione del nuovo centro di ricerca. Oltre a definire un piano per l’integrazione con il sistema esistente un rilevante impegno è l’individuazione del nuovo direttore scientifico.

La figura del Direttore Scientifico veniva inserita nell’organizzazione dell’ente sulla scorta delle migliori esperienze internazionali. I nostri modelli erano i grandi centri di ricerca statunitensi, tedeschi, olandesi, giapponesi dove si applica uno schema di funzionamento top down a differenza delle nostre organizzazioni universitarie erano caratterizzate dal bottom up, con un senato accademico e dove i professori ordinari eleggevano il rettore. I grandi centri internazionali di ricerca invece sono controllati da dei trustees responsabili della qualità e dell’indirizzo dell’istituto e della scelta dei suoi vertici. Anche noi ci siamo quindi affidati ad un board che si è assunto la responsabilità di mettere a punto gli indirizzi della nascente fondazione e di individuare attraverso un concorso internazionale il nuovo direttore scientifico. Impresa abbastanza ardua essendo in quel momento IIT un’entità sconosciuta nel mondo della ricerca internazionale. Abbiamo così iniziato un’attività di promozione presso i grandi centri mondiali raccontando di qualcosa che ancora non c’era, scontando lo scetticismo che aleggiava attorno al nostro sistema Paese. La credibilità del Ministero delle Finanze che si assumeva la paternità di questa iniziativa ha aiutato nel vincere questi scetticismi.  Nonostante le difficoltà entrammo in possesso di un considerevole elenco di candidati e iniziammo le selezioni. Il percorso si concluse quando decidemmo, assolutamente convinti, di puntare su Roberto Cingolani, con lui trovarono confluenza le nostre esigenze con le sue capacità, la sua volontà e determinazione. Oggi posso affermare che senza Roberto IIT non ci sarebbe stato.

IIT, ai suoi albori, era rappresentato come una scommessa molto rischiosa e vi erano forti avversioni verso questo modello scientifico e organizzativo. Con quale spirito affrontò i primi momenti della sua presidenza?

Scontammo all’inizio del nostro percorso resistenze e una certa avversione perché non si era capito che i fondi stanziati per IIT non venivano sottratti alla ricerca universitaria ma erano una nuova voce tra i finanziamenti del Ministero delle Finanze. Ma anche questo chiarimento non era accettato perché si rispondeva dicendo che se si voleva migliorare la ricerca tradizionale si dovevano stanziare più fondi e non offrirne ad altri. Io rispondevo con le mie convinzioni, fondate sulla considerazione che la diversità è un fattore fondamentale per stimolare la competitività e sostenere la crescita e ciò vale non solo per la ricerca. Comunque, essendo il nostro progetto agli albori, i sospetti erano legittimi temendo che stessimo cercando di indebolire il sistema delle università e dei centri di ricerca esistenti. Per sfatare queste preoccupazioni era importante il dialogo con le altre eccellenze italiane della ricerca dai politecnici alle università. Attraverso diversi incontri con i vertici di queste istituzioni abbiamo illustrato il nostro modello dimostrando assoluta apertura e volontà di collaborazione. Da qui sono nati dei rapporti in molti casi profondi tra IIT e questi organismi. Nei fatti IIT ha dimostrato di non essere un’alternativa al sistema della ricerca italiana ma un supporto importante per il lavoro degli atenei. Le tante collaborazioni di successo dimostrano nei fatti l’applicazione di quei principi. Vi è stato un positivo travaso di esperienze, da quelle più specificatamente scientifiche all’applicazione di nuovi modelli di governance e di allocazione delle risorse finanziarie.

Oggi dopo venti anni di attività si può affermare che si è concretizzato un nuovo modello di istituto di ricerca?

Sì, il nuovo modello ora è divenuto un esempio per altri istituti di ricerca che sono nati nel nostro Paese e altri che stanno per nascere. Credo che complessivamente vi sia stata in questo ambito un’evoluzione. All’inizio di questa impresa eravamo perfettamente coscienti che IIT da solo non sarebbe riuscito ad incidere in modo massiccio sul cambiamento di alcune radicate consuetudini se non partecipando al cambiamento collettivo. IIT è un’eccellenza per tutto quello che produce a livello scientifico ma il suo percorso è stato rimarchevole anche per l’apporto che ha fornito allo sviluppo del sistema in generale. Tutti dobbiamo cambiare, tutti dobbiamo innovare soprattutto nel mondo della ricerca dove l’essere conservatori non ha senso ed è una evidente contraddizione nei termini.

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