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Speciale – Quando le neuroscienze incontrarono le nanotecnologie e la robotica

Intervista a Fabio Benfenati, coordinatore del NSYN@UniGe – Center for Synaptic Neuroscience and Technology di IIT

Il ciclo di interviste ad alcuni dei personaggi chiave che hanno contribuito alla nascita e alla crescita di IIT, si conclude con una conversazione con Fabio Benfenati, più volte citato negli articoli precedenti.

 

Da Genova a Stoccolma, fino a New York nel laboratorio del premio Nobel Greengard e poi nuovamente in Italia, e a Genova all’IIT, nel momento della sua fondazione. Come è stato l’inizio?

Quando sono tornato in Italia dopo New York ero Professore associato all’università di Roma e solo nel 2000 sono tornato a Genova come professore ordinario in neurofisiologia all’Università, dove avevo creato dei primi laboratori che si sarebbero in seguito rilevati importanti per la prima fase di partenza dell’IIT. Nel 2005 ci fu il lancio del primo bando internazionale per i Direttori di ricerca delle tre aree principali: robotica, nanotecnologie e neuroscienze. Vennero identificati tre direttori per la robotica, io venni scelto per le neuroscienze, e un direttore per un dipartimento dedicato alla ricerca e sviluppo di farmaci. Le nanotecnologie arrivarono dopo. Questo accadde nell’estate del 2005, ma io e Giulio Sandini eravamo già stati coinvolti da IIT, perché nel 2004 era stato attivato un dottorato con l’Università di Genova. Il vero inizio è stato nel luglio 2006, quando siamo entrati in questo edificio abbandonato dall’Agenzia delle Entrate nella collina di Morego, una sorta di cattedrale nel deserto. Mi ricordo le sedute lunghissime di pianificazione con Roberto Cingolani e altri direttori per disegnare e stabilire dove mettere i laboratori. Era stata una fase molto stimolante poiché decidevamo tutto insieme, c’erano molte discussioni. Abbiamo iniziato il reclutamento, e la selezione veniva svolta congiuntamente da tutti i direttori proprio per valutare anche il talento interdisciplinare dei candidati. La grande sfida che dovetti affrontare fu quella di reclutare ricercatori di alto livello, principalmente dall’estero, senza avere laboratori pronti e in un breve intervallo di tempo per fare decollare la ricerca in neuroscienze nel minor tempo possibile; la reputazione dell’Italia di paese molto lento e burocratico non ha facilitato l’attrattività. IIT è stata una scommessa per coloro che abbiamo reclutato e che poi hanno confermato il loro alto livello scientifico. Scegliemmo circa 12 team leaders: tra questi oggi 7 sono diventati tenured principal investigators in IIT, mentre gli altri sono diventati professori in Università italiane e soprattutto straniere.

Cosa ti aveva spinto a candidarti come Direttore per le neuroscienze di un istituto del tutto nuovo?

Per me, che ero arrivato a Genova solo da breve tempo, è stata un’opportunità unica per portare avanti una ricerca di prim’ordine, con strumentazioni avanzate e in un ambiente internazionale che in Italia è purtroppo raro. Il progetto di IIT era molto innovativo e di grandissimo livello, con l’idea di sviluppare un tipo di ricerca avanzata che fondesse i territori di discipline tradizionalmente separate nel mondo accademico e concentrasse i finanziamenti su alcune aree di ricerca in grande espansione. È stata una scommessa vincente. IIT è stato una sorta di studio pilota che ha dimostrato che la ricerca in Italia potrebbe cambiare come livello qualitativo e internazionalizzazione se il modello IIT si estendesse a tutto il mondo accademico italiano. I risultati ci hanno mostrato che siamo riusciti a costruire un istituto di ricerca agile e dinamico, con fondi per ricercatore inferiori in proporzione ad altri istituti, laboratori e attrezzature avanzate ed un nuovo concetto multi- e inter-disciplinare della ricerca. Ciò ci ha reso attrattivi per gli stranieri e ha reso IIT un istituto internazionale.

Tra tanti ingegneri e scienziati delle materie dure, le neuroscienze erano le uniche life sciences. Quale ruolo hanno avuto nell’interazione con le altre aree del piano strategico?

Le neuroscienze erano entrate nel piano strategico come un’area delle life sciences che potesse interagire da una parte con le nanotecnologie e dall’altra con la robotica. Le neuroscienze sono molto ampie ed eterogenee, dagli studi di tipo più “psicologico” a quelli più molecolari e fisiologici. Io appartengo a quest’ultima area, alle neuroscienze che si interrogano su quali siano i meccanismi che portano alle malattie del sistema nervoso e possano essere bersaglio di approcci terapeutici innovativi. Studiamo patologie e disturbi come l’autismo, la schizofrenia, la neurodegenerazione, l’epilessia. In IIT ho continuato le mie precedenti linee di ricerca ma arricchendole grazie alla possibilità di interagire con ricercatori di altre discipline, in modo particolare i nanotecnologi. Noi e loro abbiamo in comune le dimensioni piccole: i nanotecnologi lavorano con atomi e molecole dei materiali, noi con i neuroni; per cui abbiamo iniziato a studiare come i nanomateriali potessero dialogare con le cellule del cervello. E per me è stata un’interazione molto esaltante, per quanto sia stato difficile fare capire a fisici o chimici la variabilità biologica e quindi il tipo di esperimenti che andavano fatti. Questo confronto tra diverse formazioni l’ho sempre trovato molto stimolante e arricchente. Ci ha permesso di sperimentare cose fuori dell’ordinario, con entusiasmo quasi ludico. In particolare, questo è accaduto con il gruppo di Guglielmo Lanzani, insieme al quale siamo arrivati a realizzare il progetto della retina artificiale organica.

A un certo punto nella storia di IIT è diventata importante la collaborazione con gli ospedali, gli IRCSS. Oggi il Centro che coordini ha proprio sede presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino.

C’è stata una prima motivazione legata alla carenza degli spazi, poiché mentre IIT cresceva con nuovi gruppi, lo spazio diventava insufficiente. L’Ospedale Policlinico San Martino aveva a disposizione degli spazi e quindi io con il mio gruppo, forti del fatto che c’erano già in corso delle collaborazioni con neurofisiologi e neurologi dell’Ospedale San Martino e della Scuola di Medicina dell’Università di Genova, ci siamo spostati presso il Centro di Biotecnologie avanzate del Policlinico costituendo il Center for Synaptic Neuroscience and Technology di IIT. Collaboravamo molto con il Prof. Antonio Uccelli, oggi Direttore Scientifico dell’IRCCS, su studi che riguardavano le alterazioni nella trascrizione genica nella sclerosi multipla. Nel frattempo, l’interazione si è pian piano trasformata in un qualcosa di più strutturato. L’Ospedale San Martino era un IRCSS per l’oncologia e inizialmente non eravamo direttamente coinvolti nelle loro ricerche, ma il contatto tra noi e i neurologi ci ha permesso di proporre l’Ospedale come IRCSS anche per le neuroscienze, una proposta approvata dal Ministero nel 2018. E’ stato un evento molto positivo, che ha determinato un’integrazione molto più forte tra le ricerche di IIT e quelle dell’IRCCS. Oggi possiamo avere interazioni e collaborazioni con neurofisiologi, neurochirurghi, psichiatri, medici nucleari, che sono molto utili per le nostre ricerche.

Cosa vedi oggi nel futuro dell’Istituto sulla base dell’esperienza fatta?

I Centri di IIT ci hanno permesso di interagire con le realtà universitarie e altri istituti in Italia, favorendo la nascita di idee. È anche vero, però, che essere tutti sotto uno stesso tetto aiuta le interazioni. Un progetto affascinante potrebbe essere quello di portare tutte le neuroscienze di IIT a Genova, e la sede potrebbe essere il futuro nuovo ospedale di Erzelli, creando un grande polo internazionale. Si tratta di un progetto che potrà vedere la realizzazione tra non meno di 8-10 anni, quando io sarò ormai in pensione, ma l’iniziativa è di grande valore, coinvolgendo i principali enti di ricerca di Genova. Più in generale, secondo me, il futuro dell’IIT può solo essere quello di procedere sulla strada tracciata, dando pieno valore al merito, bilanciando la ricerca di base con quella più traslazionale e aumentando ulteriormente l’internazionalizzazione – purtroppo ridottasi leggermente per i noti problemi legati all’assunzione di personale di ricerca non Europeo. Ad oggi, sono necessari da 6 a oltre 12 mesi per assumere, dopo la selezione, ricercatori extra-EU, che può volere dire anche da paesi come UK, Canada e USA. L’esempio dell’IIT deve essere moltiplicato ed esteso, anche dal punto di vista disciplinare, ad aree di grande impatto come immunologia e oncologia e per fare questo sarebbero necessari nuovi finanziamenti. Ad oggi il finanziamento che riceviamo dallo Stato copre principalmente le spese interne, e servono i fondi esterni ottenuti per via competitiva o tramite il trasferimento tecnologico per fare ricerca. Per quanto la capacità di IIT a conquistare questi fondi esterni conferma la qualità della nostra ricerca, essi in genere non permettono di finanziare una ricerca curiosity-driven di più lunga programmazione. Mi piacerebbe vedere nel futuro di IIT un riconoscimento governativo al ruolo centrale che questo Istituto ha svolto nei suoi 20 anni di vita nel panorama della ricerca nazionale e internazionale.

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