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Dai metamateriali alle tecniche di microscopia ad alta risoluzione

Intervista ad Antonio Ambrosio, coordinatore della linea di ricerca “Vectorial Nano-imaging” di IIT

Sono le due linee di ricerca di Antonio Ambrosio, vincitore di un finanziamento ERC consolidator, il cui progetto ha avuto inizio nell’ottobre 2019. Nel mese di luglio, inoltre, avrà inizio un altro progetto – finanziato dalla Fondazione Cariplo – mirato a favorire il ritorno di eccellenze dall’estero. Una di queste eccellenze è proprio Ambrosio, che dall’università di Harvard è rientrato per svolgere le sue ricerche presso l’IIT di Milano.

Parte della sua ricerca si focalizza sugli studi della luce strutturata. Cosa si intende per luce strutturata?

Un puntatore laser proietta essenzialmente un punto luminoso, più o meno grande (un cerchietto pieno di luce). L’idea è, invece, quella di riuscire a controllare completamente la distribuzione di luce e di realizzare delle forme arbitrarie, modificando il fascio di un laser esternamente, mediante un elemento ottico che cambi questa distribuzione. Allora l’emissione non sarà più quel puntino luminoso, ma una diversa distribuzione di luce.

A cosa serve cambiare la “forma” della luce?

Dal punto di vista di un puntatore, questo serve a poco: che sia un punto luminoso o uno smile non cambia niente. Ci sono, invece, delle applicazioni in cui la distribuzione del campo elettromagnetico, e quindi della luce, può essere utilizzata per alcuni tipi di microscopia, per riuscire a superare quello che si chiama limite di diffrazione dei microscopi classici tradizionali.

Cosa si intende per limite di diffrazione?

L’obiettivo di un microscopio ha un limite che è legato alle sue caratteristiche, tra cui l’ingrandimento e l’apertura numerica, ovvero l’angolo massimo al quale lo strumento è in grado di raccogliere la luce. In pratica, un microscopio non è in grado di distinguere due punti luminosi che si trovano a una distanza più piccola della metà della lunghezza d’onda della luce utilizzata.

Da tempo si è imparato a modulare la luce. Qual è stato il salto che ha portato alla realizzare di luce strutturata?

La novità sta nell’utilizzo delle metasuperfici ottiche. Una metasuperficie ottica è un’interfaccia strutturata che va a sostituire, in un certo senso, la lente. La differenza è che, mentre la lente è un oggetto con una curvatura interna, una esterna e un certo spessore, la metasuperficie ottica è un’interfaccia nanostrutturata la cui struttura, cioè, è costituita da elementi di dimensioni dell’ordine del miliardesimo di metro. Questo consente di avere degli oggetti le cui caratteristiche ottiche non esistono in natura e che per questo prendono il nome di metamateriali. Queste loro proprietà permettono di controllare la diffusione della luce che si utilizza e quindi di modularla.

Che tipo di materiali vengono utilizzati per creare metasuperfici?

Sono materiali di cui dobbiamo conoscere le caratteristiche ottiche. Si usano materiali diversi a seconda della lunghezza d’onda della radiazione luminosa che si vuole modulare. Per esempio, se parliamo di lunghezze d’onda della regione spettrale del visibile (cioè quella che l’occhio vede), l’ossido di titanio è un buon candidato, per mezzo della sua trasparenza, ma le caratteristiche ottiche (indice di rifrazione) sono ancora tali da consentire di confinare la luce all’interno di nanostrutture. Se usiamo invece una radiazione luminosa con lunghezze d’onda più elevate – infrarosso – il silicio è un buon materiale. Per le lunghezze d’onda usate nella telecomunicazione, si usa per esempio il silicio cristallino.

Queste metasuperfici ottiche non sono, quindi, soltanto un oggetto di studio, ma diventano dei veri e propri strumenti, utilizzati in questo caso per modulare la luce. Hanno altre particolari funzioni?

Un nuovo trend mondiale, in cui ci sono sia player industriali enormi, sia laboratori di ricerca come il mio, è quello di nanostrutturare un’interfaccia per creare dei dispositivi che siano sottilissimi, di fatto più sottili della lunghezza d’onda della luce usata. Stiamo, cioè, parlando di dispositivi che hanno uno spessore di un decimo di un capello umano, o anche meno, e sono quindi estremamente leggeri. Di mio particolare interesse è, comunque, la realizzazione di device per codificare delle informazioni nei fasci di luce.

Che tipo di informazioni sono?

Le tecniche con cui vengono costruiti questi dispositivi hanno una risoluzione molto elevata, che si traduce in un controllo molto preciso delle strutture. Si è quindi in grado di variare le caratteristiche del fascio. In pratica, codificando un fascio laser a livello di singole particelle di luce (fotoni), si possono avere informazioni legate all’intensità del fotone stesso, ma anche alla sua carica topologica, che può essere utilizzata per creare dei bit logici.
Nel laboratorio ad Harvard dove ho lavorato, abbiamo sviluppato una metasuperficie che è unica nel suo genere, perché permette di convertire il fascio di luce di un semplice puntatore in un fascio di luce che abbia una distribuzione di carica arbitraria, di cui parlavamo prima.

Traducendo questo in bit?

Anziché avere un bit che può assumere gli stati logici 0 e 1, si ha la possibilità di attivare nuovi stati di origine.

Esistono altre applicazioni?

Giocando sulla strutturazione della luce, si va da applicazioni molto sensibili come l’intrappolamento ottico e la microscopia ad altissima risoluzione, ad applicazioni di potenza come il taglio laser di rocce e metalli. Un laser con profilo classico non è in grado di fare tagli netti e tende, quindi, a lasciare residui. I fasci di luce strutturata, come un anello di luce,  consentono di fare dei tagli molto più netti.

Quindi, la focalizzazione della luce di un laser può scaldare un materiale al punto di tagliarlo. Ma se uso luce strutturata – cioè focalizzata, concentrata, non solo in un punto, ma in una determinata forma che scelgo – posso riprodurre dei veri e propri strumenti di taglio fatti di luce: un anello di luce ben focalizzato, per esempio, può simulare una lama rotante come quella di un arrotino.

Oltre all’attività legata alle metasuperfici e alla strutturazione della luce, c’è un’altra attività di ricerca che lei pratica. Quale?

È l’attività legata alla microscopia ottica a elevata risoluzione, non con un microscopio classico, ma di tipo AFM, cioè a forza atomica. Sostanzialmente si ha una microleva su cui è montata una punta molto sottile, che compie localmente una scansione della superficie del campione in esame, ma senza toccarla. Ha presente la punta di un giradischi? L’idea è simile, ma in questo caso non c’è contatto e inoltre parliamo di dimensioni nanometriche (dell’ordine, cioè, del miliardesimo di metro). Misurando la deflessione della microleva, provocata da una forza che agisce tra la punta e il campione, è possibile effettuare la scansione e quindi ricostruire la morfologia del campione. Nel mio caso, tuttavia, oltre ad avere una traccia morfologica, il lavoro consiste anche nel cercare informazioni ottiche: in altre parole, illuminando il campione, posso ottenere delle informazioni sulle sue proprietà ottiche attraverso lo studio della luce che esso riflette o trasmette.

E come si raccolgono le informazioni dalla luce?

Raccogliendo la stessa luce riflessa o trasmessa dal campione. A raccoglierla è una sonda ottica, posizionata molto vicina alla superficie dell’oggetto in esame, ed è proprio questa piccola distanza alla quale si raccoglie la luce, che consente di ottenere l’immagine a una risoluzione molto elevata (tipicamente, 20-50 nm). Con la microscopia classica, invece, che ha il limite di diffrazione di cui parlavamo prima, si ha una risoluzione di 200 nm, cioè almeno 4 volte peggio.
In questi anni ho contribuito a sviluppare una tecnica alternativa molto simile, con cui si producono immagini ad alta risoluzione senza però raccogliere la luce. Sembra controintuitivo, ma si tratta di una tecnica molto utile se vogliamo utilizzare, anziché fasci di luce a infrarosso, luce a lunghezze d’onda più corte, come quelle del visibile.

La luce può essere visibile o invisibile, può essere modulata, modellata, la si può utilizzare per trasportare informazioni, per simulare la materia, per tagliare materiali durissimi, per conoscere le proprietà ottiche di un oggetto, non solo per lo studio di materiali inanimati, ma anche per apprendere la natura di cellule e microrganismi. Con la luce si osserva e si trasformano i fini in mezzi per nuovi obiettivi.

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