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PI Profiles: Paolo Netti

Intervista a Paolo Netti, coordinatore del Center for Advanced Biomaterials for Healthcare di IIT

Nome: Paolo

Cognome: Netti

Luogo di nascita: Bari (Italia)

Ruolo: PI Bio-Logic Materials, Coordinatore del Center for Advanced Biomaterials for Healthcare

Di cosa si occupa il tuo team di ricerca?

Il mio team di ricerca si occupa di ibridare i materiali sintetici con i materiali biologici, ossia interfacciare il mondo fabbricato (di sintesi) al mondo creato (biologico). Proprio per questa ragione il mio gruppo si chiama Bio-Logic Materials.

Pensavi di fare questo mestiere da piccolo?

Mi piacerebbe dire che da piccolo smontavo i giocattoli per comprenderli, ma in realtà avevo quasi un’avversione verso lo studio. Tuttavia, mi è sempre piaciuto fantasticare su cose nuove, qualità che ho poi ritrovato nella ricerca perché permette di inventare e immaginare nuovi scenari.

Se non avessi fatto questo lavoro, cosa ti sarebbe piaciuto fare?

Inizialmente volevo fare un MBA (Master in Business Administration). Ero convinto che unire la macroeconomia alle conoscenze tecniche di ingegneria mi sarebbe servito per affrontare il mondo del lavoro. Il mio professore di tesi, però, mi convinse a fare un anno di ricerca e da lì decisi di prendere il dottorato. Per me fare ricerca non significa solo studiare per aumentare le conoscenze a disposizione, ma anche inventare proponendo idee innovative che possono avere un impatto sull’economia. Da questo punto di vista penso di aver conciliato con quella mia volontà di unire la macroeconomia alla ricerca.

Quella volta in cui avresti voluto mollare tutto e fare altro:

Il periodo più frustrante della mia vita è stato quello del dottorato, dove perdevo giorni e settimane tentando di ottenere dei risultati. Però, io credo che la frustrazione faccia parte del nostro lavoro da ricercatore, perché vai a fare cose che non ha mai fatto nessuno, quindi sbagliare è facilissimo. L’importante è rendersi conto di questo fatto e non mollare.

“Publish or perish”. Quanto influenza le tue giornate e le tue scelte lavorative la pressione della pubblicazione?

La pressione della pubblicazione è molto presente. Accettare il nostro sistema di valutazione significa accettare automaticamente il meccanismo Publish or perish. Tuttavia, c’è una forma che preferisco: “Apply or die” ossia trovare in impiego a quello che si pubblica tramite un brevetto o una startup. Trovare un risvolto applicativo alle mie ricerche mi dà molta soddisfazione e riduce la pressione del Publish or perish.

Quando hai capito che stavi andando nel verso giusto?

Quando ho iniziato a vedere colleghe e colleghi fare cose simili a quelle che facevo io. In realtà però, io ne ho sempre fatto più una questione di emozioni che una questione pratica: ogni volta che provo gioia per aver capito un concetto nuovo o per essere riuscito a intersecare un fatto ignoto nelle mie conoscenze, ho la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta.

Qual è il tuo prossimo obiettivo?

Dimostrare che le conoscenze odierne possono essere integrate fra loro in maniera più rapida rispetto a qualche anno fa e che questa integrazione condurrà, in poco tempo, a risvolti applicativi in grado di creare nuove tipologie di lavoro.

Qual è l’aspetto più difficile del mestiere?

Probabilmente l’aspetto sociale: i ricercatori e le ricercatrici hanno spesso un ego ipertrofico, per questo a volte risulta difficile collaborare e integrarsi.

Il ricercatore senior si deve curare anche di molti aspetti burocratici come condizione necessaria. Apparentemente è un aspetto che difficilmente si concilia con l’attività di ricerca. Come la vivi? 

Io la vivo come un servizio fatto alle persone più giovani perché nella scienza li ritengo più “veloci” rispetto ai senior come me. Quindi ritengo giusto che sia io a gestire questa parte più amministrativa, in modo che le menti più “fresche” possano interessarsi al mondo della ricerca.

Chi dovrebbe investire di più nella ricerca rispetto a quanto fa oggi?

Sicuramente lo Stato: la ricerca in Italia è sempre stata vista come un costo. Perciò, in tempi di crisi, è suscettibile ai tagli perché è percepita dai cittadini come un qualcosa che influenza poco o niente il loro benessere. Di conseguenza, anche gli enti privati sono poco stimolati a investire. Secondo me la soluzione sarebbe avere una filiera unica e non due mondi separati: la ricerca pubblica dovrebbe puntare sulle ricerche più rischiose, cioè quelle in grado di far avanzare notevolmente le frontiere della conoscenza, in questa maniera i privati sarebbero più invogliati a investire in ricerca applicata perché il rischio è stato abbassato dal capitale pubblico.

Si parla abbastanza di scienza al di fuori dei laboratori e del mondo accademico?

No, soprattutto in Italia. Gli scienziati e le scienziate dovrebbero prendere più spesso parola, soprattutto spiegando come hanno impiegato gli investimenti pubblici. Il problema è che spesso in questi interventi il coinvolgimento del pubblico rimane piuttosto basso, portando le persone a disinteressarsi al tema.

Da chi hai ricevuto l’insegnamento più importante durante il tuo cammino?

Durante il mio percorso ho avuto parecchi maestri con il quale mi sono confrontato. Ultimamente mi sto arricchendo sempre più dal dialogo con persone più giovani.

Cosa diresti oggi al giovane te che termina il suo dottorato:

Cerca di non fossilizzarti troppo su cose specifiche, di essere meno “verticale” nel tuo approccio e più “orizzontale”.

Lavorare in diversi Paesi è fondamentale per un ricercatore?

È cruciale, perché permette di conoscere diversi modelli di ricerca. Le ricercatrici e i ricercatori sono dipendenti dall’ambiente in cui fanno ricerca, perché permette loro di sbloccare o meno il loro potenziale.

Puoi migliorare un aspetto della ricerca in generale. Quale scegli?

Mi piacerebbe cambiare il modello della ricerca in Italia introducendo l’innovazione come valore cardine della ricerca oltre all’avanzamento delle conoscenze. IIT in generale ha questo approccio. La gente parla della fuga dei cervelli come se fosse un problema dei nostri ricercatori e delle nostre ricercatrici, ma in realtà questo è un problema del modello di ricerca del nostro Paese che attualmente ha come unico sbocco la ricerca accademica. Mi piacerebbe quindi modificare questo sistema, in modo che si possano generare più opportunità per i ricercatori e le ricercatrici in Italia.

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