Lo studio del gruppo dell’IIT a Venezia, coordinato da Arianna Traviglia, è stato pubblicato sulla rivista PNAS conquistandosi la copertina
Il gruppo di ricerca del Centre for Cultural Heritage Technology (CCHT) dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Venezia è autore di una scoperta che fa rivivere nella scienza contemporanea un reperto romano di duemila anni fa rinvenuto nell’antica città di Aquileia, nel Friuli Venezia-Giulia, grazie alle proprietà del materiale di cui è fatto. Si tratta di un frammento di vetro verde scuro che il tempo e l’interazione con l’ambiente hanno modificato nella struttura, rendendolo un nuovo tipo di materiale con proprietà fotoniche, le stesse proprietà sfruttate nelle moderne tecnologie per le telecomunicazioni. I ricercatori dell’IIT svilupperanno metodi per realizzare il nuovo materiale in modo artificiale, così da poterlo utilizzare nel campo della moderna ottica ed elettronica.
Il lavoro è stato pubblicato nella rivista scientifica internazionale Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), dai ricercatori di IIT guidati da Arianna Traviglia, coordinatrice del CCHT di IIT a Venezia, in collaborazione il prof. Fiorenzo Omenetto e la dott.ssa Giulia Guidetti della Tufts University a Boston, USA. La rivista ha dedicato alla scoperta la copertina.
Lo studio italo-americano ha una storia che unisce la ricerca archeologica e quella delle tecnologie per la conservazione dei beni culturali, con la capacità del CCHT di allargare le proprie collaborazioni interdisciplinari con gruppi di esperti a livello internazionale.
Nel 2012, durante una ricognizione archeologica nell’area circostante l’antica città di Aquileia, il gruppo di Traviglia aveva rinvenuto un frammento di vetro romano poi consegnato al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia. Il frammento di vetro aveva catturato l’attenzione dei ricercatori a causa della sua superficie cangiante, con colori che vanno dal blu all’oro.
Per comprenderne meglio la struttura, il team dell’IIT ha eseguito delle analisi chimiche che hanno reso possibile la datazione del frammento di vetro tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e individuato come zona di probabile provenienza delle sabbie usate per la vetrificazione, l’Egitto, confermando la presenza di rotte di scambio nel Mediterraneo.
Il colore del frammento rappresentava, però, una caratteristica che meritava un ulteriore approfondimento. Sebbene la parte del frammento abbia conservato il suo colore originale verde scuro, infatti, sulla sua superficie è presente una patina caratterizzata da un colore oro metallizzato dovuto dalla riflessione della luce, una patina che si comporta come uno specchio.
La collaborazione con il prof. Fiorenzo Omenetto e la dott.ssa Giulia Guidetti della Tufts University hanno permesso di analizzare la struttura del vetro a livello molecolare. Grazie all’utilizzo di un nuovo tipo di microscopio elettronico a scansione, i ricercatori hanno infatti osservato la struttura nanometrica del materiale e fornito un’analisi degli elementi che la costituiscono.
Tale approfondita osservazione ha mostrato la presenza di una sorta di fabbricazione nanometrica di cristalli fotonici. Il vetro, cioè, presenta una struttura di cristalli con una gerarchia e ordine, tale per cui il materiale riflette la luce dando un’apparenza metallica e dorata al frammento di vetro.
“Si tratta probabilmente di un processo di dissoluzione e riorganizzazione del vetro avvenuto lentamente attraverso i secoli” affermano Giulia Franceschin e Roberta Zanini, le ricercatrici del CCHT impegnate nello studio. “Il terreno argilloso e le variazioni climatiche hanno influenzato la diffusione dei sali inorganici e la corrosione ciclica della matrice vitrea. Contemporaneamente, si è verificata la formazione di strati spessi circa 200 nanometri, in cui particelle di silice si sono organizzate in strutture ordinate.“.
Nel corso dei duemila anni della vita del vetro, il processo di deperimento si è trasformato in un processo di riorganizzazione, anziché di mera dissoluzione, delle molecole che lo componevano, grazie anche ai sali inorganici presenti nel terreno in cui i frammenti di vetro erano rimasti sepolti.
“Questo risultato dimostra come l’ispirazione per la creazione di nuovi materiali possa derivare da situazioni molto diverse e insolite, quali lo studio dei materiali giunti fino a noi dall’antichità, e l’importanza che lo studio di manufatti archeologici riveste per l’innovazione nel campo della scienza dei materiali e della conservazione del patrimonio culturale” commenta Arianna Traviglia.
A partire da questi risultati, infatti, i ricercatori dell’IIT svilupperanno metodi per realizzare il nuovo materiale in modo artificiale, così da poterlo impiegare nei dispositivi moderni. I cristalli fotonici trovano diverse applicazioni, dalle telecomunicazioni basate su commutatori ottici e dispositivi per comunicazioni ottiche estremamente veloci. Grazie alla loro capacità di essere progettati per bloccare specifiche lunghezze d’onda della luce, mentre consentono il passaggio di altre, trovano impiego anche in filtri, sensori, laser, specchi e dispositivi antiriflesso.
Articolo di riferimento: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2311583120