Intervista a Roberto Cingolani da Repubblica Sera dell’11 Febbraio (di Caterina Grignani)
«Occorrono i finanziamenti, certo, ma anche una pianificazione sul lungo periodo e un adeguamento agli standard internazionali per ciò che riguarda i meccanismi di reclutamento». A parlare è Roberto Cingolani, fisico e direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova che promuove lo sviluppo tecnologico del paese e l’alta formazione in ambito scientifico e tecnologico, affermandosi come eccellenza nel panorama della ricerca italiana. Direttore, lei sottoscrive la lettera di Parisi? L’ha firmata o la firmerà? «La lettera è assolutamente condivisibile». La situazione della ricerca italiana è davvero così buia? Perché? «Che ci siano dei problemi non si può negare ma nonostante questo la ricerca italiana continua ad essere molto buona. Ovviamente gli altri Paesi investono e crescono più in fretta, per questo motivo rimanere competitivi diventa sempre più difficile».
Qual è la differenza tra l’Italia e gli altri Paesi per ciò che riguarda la ricerca, è solo una questione di investimento? «Sicuramente l’investimento in ricerca, soprattutto quella “curiosity driven”, la ricerca di base – che è fondamentale – dovrebbe essere molto maggiore. Occorrerebbe però anche adeguare i meccanismi di reclutamento agli standard internazionali, e creare grandi infrastrutture di ricerca. Soprattutto in certi settori oggi occorre pianificazione, una visione di lungo termine, la capacità di realizzare grandi laboratori che diventano a loro volta attrattori internazionali. In tutto questo oltre ai fondi serve una burocrazia efficace e un’organizzazione molto seria». Perché da noi i privati non finanziano la ricerca? «Perché ci sono pochi grandi gruppi. Le moltissime PMI – piccole e medie imprese – per quanto avanzate, non riescono individualmente a finanziare la ricerca pubblica facendo la differenza».
Esiste una rete di ricercatori che protesta e allo stesso tempo informa il Paese sulla situazione della ricerca? Quando c’era la Gelmini al ministero, i ricercatori erano saliti sui tetti. «I problemi vanno sollevati, discussi e affrontati, con proposte forti e argomenti chiari, informando tutti. La strada scelta da scienziati eccellenti come Giorgio Parisi mi sembra la più adeguata». Si parla tanto di cervelli in fuga ma oggi un giovane che vuole restare in Italia – e si deve sostentare – con realismo non sceglie la strada della ricerca. Come invertire questa tendenza? Da cosa si potrebbe iniziare? «La fuga dei cervelli di per sé non è il problema. Il vero problema è che noi non bilanciamo il flusso di cervelli che vanno all’estero con un flusso di cervelli che vengono a studiare/lavorare in Italia. Però il caso dell’Istituto Italiano di Tecnologia è interessante. In IIT abbiamo circa la metà degli scienziati che vengono da oltre 50 Nazioni del mondo. La fuga dei cervelli si può invertire, o meglio il flusso dei cervelli entranti e uscenti si può bilanciare, con un meccanismo di reclutamento fatto secondo gli usuali standard internazionali (call, panel interview, tenure track o equivalente) e offrendo grandi infrastrutture di ricerca dove creare un ambiente internazionale. Ovviamente per questo oltre ad una buona organizzazione servono investimenti, e si ritorna all’appello di Giorgio Parisi».